Salvatore De Mola, sceneggiatore di “Kostas”: «Il nostro è un uomo comune costretto a confrontarsi con il male»
In queste settimane stiamo vedendo s Rai 1 “Kostas“, la fiction in quattro puntate incentrata sul burbero commissario creato dallo scrittore greco Petros Markaris. Il poliziotto, interpretato da Stefano Fresi, lavora ad Atene nella squadra omicidi, e ha un carattere particolare:
è duro con chi interroga e con i compagni d’ufficio, mentre è decisamente morbido con la moglie Adriana e la figlia Caterina.
A firmare la sceneggiatura di questa serie tv è Salvatore De Mola, penna di cinema e di televisione che ha firmato grandi successi.
Ne abbiamo parlato con lui.
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Partiamo dalla fine. Cosa ti ha portato a firmare “Kostas”?
Io e il mio collega Pier Paolo Piciarelli siamo sempre stati appassionati lettori dei romanzi di Petros Markaris.
Abbiamo pensato che sarebbe stato bello farne un adattamento e abbiamo chiesto in giro se qualcuno avesse voglia di acquistarne i diritti. Abbiamo saputo che la Palomar di Carlo Degli Esposti aveva già un’opzione, conosco bene gli amici di Palomar per tutti gli anni in cui ho lavorato con loro per “Montalbano”, “Gente di mare” e “Makari” e abbiamo chiesto se fosse ancora possibile entrare nella squadra di scrittura.
Per fortuna è stato così e ci siamo ritrovati a lavorare sul nostro amato Kostas Charitos, con Michela Straniero che si è unita a noi e Valentina Alferj che ha assicurato i contatti con lo scrittore greco.
Perché, secondo te, ha riscontrato i gusti del pubblico televisivo?
Credo che Kostas rappresenti un poliziotto vero, con le sue qualità e i suoi difetti. Anche se uscito dalle pagine di una serie di romanzi, non ha nulla dei classici personaggi letterari.
Il nostro protagonista ha i problemi di tutti: una moglie che gli chiede i soldi per comprare un paio di scarpe, un padre in una casa di riposo, una figlia che si sta laureando ma che inizia ad avere relazioni stabili, i primi acciacchi di salute.
Ma tutto questo non gli impedisce di fare il suo lavoro, e bene. Non è un supereroe, è un uomo come tanti che deve affrontare vari problemi, in casa e fuori. Anche i suoi valori sono quelli di tutti: ama l’ordine, gli piace tornare a casa e trovare una cena pronta, crede nella famiglia ma si ritrova spesso a risolvere crimini che proprio in famiglia rivelano le cause dei delitti, sa di non essere colto e legge il dizionario per imparare parole nuove.
Insomma, è un uomo comune costretto a confrontarsi con il male.
Per quali motivi proprio Stefano Fresi come protagonista?
Solo in Italia esiste il pregiudizio per cui attori con una certa fisicità possono ottenere solo ruoli da comprimari. I cosiddetti “caratteristi”. In America grandi attori non classicamente “belli” hanno conquistato gli Oscar o sono stati candidati, come il compianto Philip Seymour Hoffmann o Fred M.
Abraham o Peter Giamatti. La regista, Milena Cocozza, e la produzione erano convinte che per questo personaggio servisse appunto un attore che potesse rappresentare l’uomo comune.
Non uno bello e accattivante come un Alessandro Gassmann o un Alessio Boni, ma un uomo normale. Per questo la scelta è caduta su Stefano, che aveva già dato buona prova di sé nella serie del Barlume, prodotta anche quella dalla Palomar e di cui la stessa Milena Cocozza è regista.
D’altra parte, in “Imma Tataranni Sostituto Procuratore” è stata fatta una scelta simile che ha pagato: Vanessa Scalera è riuscita, con la sua “normalità”, a conquistare milioni di telespettatori e soprattutto telespettatrici..
Stefano è stato subito consapevole dell’occasione che aveva e si è messo al servizio della storia e di Milena, e devo dire che il risultato ha stupito anche me che sono stato un suo fan fin dall’inizio. Stefano poi è una persona stupenda e sono davvero felice che abbia potuto dimostrare che anche da protagonista ha un valore.
Possiamo dire che Atene è un’altra importante protagonista?
Assolutamente sì. Mi fanno un po’ arrabbiare quelli che dicono: “Ah, ma che senso ha una serie con attori italiani ambientata in Grecia?” I romanzi di Markaris non hanno senso se li trasferisci in un’altra realtà, che so, a Viterbo o a Bari, o anche a Roma, o a Napoli.
La storia greca impregna queste storie e le vite dei protagonisti. I gialli stessi non sono spiegabili senza il paesaggio greco, e quello di Atene in particolare, con il suo traffico e il Partenone che domina ogni cosa e che ci ricorda da dove veniamo.
D’altra parte, i personaggi raccontati da Markaris hanno una portata universale, come quelli delle tragedie greche. Insomma, io sono contento e soddisfatto di questo esperimento un po’ folle, come ha scritto qualcuno, ma che evidentemente è piaciuto.
Vediamo la tua firma anche per “I fratelli Corsaro” ma cosa hanno di speciale questi due fratelli?
È stato un po’ buffo che due serie a cui tenevo molto, “I fratelli Corsaro” e “Kostas”, abbiano debuttato a un giorno di distanza l’una dall’altra. Sono due serie molto diverse, anche se tutte e due hanno al centro dei crimini.
Dei romanzi di Salvo Toscano da cui abbiamo tratto la serie per Canale 5 con Pier Paolo Piciarelli, mio sodale dai tempi di “Imma Tataranni”, e lo stesso Beppe Fiorello che la interpreta insieme a Paolo Briguglia e ad altri bravissimi attori, per la regia di Francesco Miccichè, mi è sempre piaciuto il modo leggero e un po’ scanzonato con cui l’autore riesce ad affrontare anche temi complessi, come la teologia o la lotta alla mafia.
Per questo ho lavorato con gioia a questo adattamento, proprio perché ritengo che certi temi possano venire “digeriti” meglio se inseriti in un racconto “leggero” e non superficiale.
Poi le storie di fratelli opposti mi sono sempre piaciute, e Roberto e Fabrizio Corsaro non potrebbero essere più diversi, anche se si vogliono un gran bene. Ma non se lo direbbero mai…
Tu perché hai deciso di fare lo sceneggiatore? Com’è scoccata la scintilla?
Da che mi ricordi, ho sempre desiderato inventare storie. In questo, mia madre ha avuto un ruolo importantissimo. Da piccolo, avevo una vita molto monotona, ero timido, avevo pochi amici e passavo gran parte del tempo in casa a leggere.
I miei temi erano molto essenziali, soprattutto quelli in cui dovevo raccontare le mie esperienze, quello che avevo fatto. Allora mia madre – che aveva la quinta elementare ma aveva sempre desiderato studiare, anche se non aveva avuto la possibilità di farlo – mi diceva di inventare.
Ma non cose impossibili: “Devi inventare cose che potresti aver fatto, se no non ti crederanno”. Insomma, mi stava insegnando la verosimiglianza… Da allora credo di non aver mai smesso di inventare partendo da dei dati di realtà, e adesso le storie mi inseguono, non mi lasciano mai in pace e mi perseguitano dovunque vada.
A volte una storia nasce da un volto intravisto in una folla, da un gesto strano compiuto da una sconosciuta in strada, da un racconto che leggo o da un articolo di giornale, dal rivolo inaspettato che intravedo mentre sto facendo una ricerca per un altro lavoro…
A volte invece lo spunto nasce da un episodio della mia vita che ritorna improvviso e inatteso… Letteralmente non faccio in tempo a fermarle, e non tutte possono diventare film per il cinema o la tv.
Quindi ho un serbatoio di storie che prima o poi scriverò in forma letteraria, come ha insegnato il Maestro Camilleri che dopo tanti anni passati fra teatro e tv ha iniziato nell’autunno della vita a scrivere romanzi, e che romanzi.
Cosa vuol dire essere uno sceneggiatore nel 2024?
È molto più complicato di quando ho iniziato a farlo professionalmente, nel 1997. All’epoca c’era un problema di offerta, perché di film per il cinema se ne facevano pochi e non esisteva ancora una produzione importante di serie tv.
Poi alla Rai si è affiancata Mediaset come distributore di fiction e abbiamo vissuto un momento di relativo sviluppo dell’industria dell’audiovisivo, che ha spinto molti ragazzi a intraprendere questa carriera, che però è una delle più precarie in assoluto.
Il contemporaneo proliferare di scuole di scrittura creativa, molte delle quali improntate all’insegnamento delle tecniche di scrittura per il cinema e la tv – in alcune di queste insegno anch’io… – ha convinto molti che fosse facile entrare in questo sistema.
Così oggi abbiamo tantissime persone che vogliono scrivere, e magari ne sono anche capaci, ma l’offerta è solo apparentemente cresciuta grazie all’aumento del numero dei network che producono serie e film:
ormai a pagarci non è più solo Rai o Mediaset, ma anche Netflix, che ha la sua base in America, o Amazon, o Disney, o Paramount, o Discovery. E ognuna di queste ha politiche diverse e modalità diverse di trattare con gli autori.
Che sono la base di tutto, ma vengono spesso considerati quasi degli schiavi. Ognuno è importante ma nessuno è indispensabile. Insomma, noi “vecchi” magari abbiamo le spalle più larghe e veniamo aiutati dai nostri agenti a “restare a galla”, ma i più giovani, quelli che si affacciano ora a questo mestiere e che magari siamo noi stessi, col premio Solinas ad esempio, a proporre come possibili nomi emergenti, si ritrovano in una giungla in cui non è facile districarsi e che, soprattutto, spesso non consente di vivere di questo lavoro.
Ci consola un po’ che questo non sia un problema solo di noi sceneggiatori italiani: negli Stati Uniti il recente sciopero di categoria, che ha coinvolto anche gli attori, è partito proprio dal tentativo di riconoscere i cosiddetti “residuals”, cioè i diritti che vengono dallo sfruttamento del lavoro di scrittura, per far sì che uno sceneggiatore venga ripagato se ha delle idee che vengono poi utilizzate in altri paesi.
Se a questo si aggiungono tutti i dubbi e i timori per lo sviluppo sempre più rapido e, per noi, pericoloso dell’intelligenza artificiale, ecco che diventa sempre più importante – molto più importante di quanto lo fosse nel 1997 – che gli sceneggiatori facciano fronte comune e si riconoscano nelle lotte che stanno portando avanti le associazioni di categoria, 100Autori e WGI.
Dallo sforzo comune di queste due sigle, che raccolgono la maggior parte dei colleghi italiani e che sono collegate e agiscono di concerto con le consorelle europee e statunitensi, sta venendo fuori finalmente una conquista che, fino a qualche tempo fa, sembrava impossibile proprio a causa delle divisioni e dei particolarismi del sistema italiano:
il nuovo e sospirato contratto collettivo per gli sceneggiatori. Uno strumento indispensabile per regolamentare quella giungla contrattuale in cui cerchiamo di districarci, che consentirà ai giovani autori di essere pagati il giusto e di non essere sfruttati da nessuno, produttore o network che sia.
Insomma, pur consapevole della difficoltà del momento, sono ottimista. Stiamo facendo un buon lavoro che forse non varrà per noi, ma per i nostri giovani colleghi sicuramente sì.
Hai scritto sia per il piccolo sia per il grande schermo, ma c’è differenza nella stesura di un racconto?
Quando ho cominciato a fare questo lavoro, essendo un divoratore accanito di film, volevo scrivere per il cinema. D’altra parte, se si escludono le classiche serie americane che vedevamo degli anni Ottanta e Novanta, in Italia non c’era ancora, come dicevo prima, un’industria dell’audiovisivo per la tv.
Poi pian piano anche noi ci siamo dotati di un immaginario e di prodotti seriali per la televisione, e all’inizio gli stessi registi e sceneggiatori di cinema passavano a scrivere e dirigere serie tv. Mi riferisco, fra gli altri, a Damiano Damiani, che firmò la “Piovra” ma era un grande regista di cinema:
si pensi, ad esempio, al “Giorno della civetta” da Sciascia, con Franco Nero, del 1968, forse il primo vero film italiano sulla mafia.
E la stessa “Piovra” fu scritta da grandissimi sceneggiatori di cinema, da Ennio De Concini a Stefano Rulli e Sandro Petraglia. Per caso o per fortuna mi sono ritrovato a lavorare proprio in questo momento di passaggio, quindi non mi vergogno a confessare che pago le rate del mutuo grazie alle serie tv.
Anche se poi gran parte del mio lavoro in questi anni l’ho fatto scrivendo il “Commissario Montalbano”, che è più una “collana” di film che una vera e propria serie tv. Insomma, m’illudo sempre di mettere un po’ di cinema nelle serie tv che scrivo.
Il che significa che ogni tanto cerco di “citare” un grande film del passato. Nella scorsa stagione di “Imma Tataranni”, ad esempio, d’accordo col regista Francesco Amato abbiamo aperto ogni episodio con la citazione di un classico del cinema.
Il primo episodio della terza stagione, infatti, si apre con una citazione di “Viale del tramonto” di Billy Wilder, uno dei miei registi preferiti.
Fin che posso, cerco di non pensare che sto facendo una serie per la tv, ma a volte è un po’ difficile perché quando lavori per Rai, Mediaset o anche per le OTT arrivano una serie di condizionamenti che per fortuna nel cinema non esistono.
Non si tratta di vere e proprie censure, ma di “consigli” che è meglio seguire, se si vuole lavorare ancora con loro… E devo ammettere che a volte non sono nemmeno considerazioni astruse o campate in aria, ma limitano comunque la libertà di espressione di un autore.
Alla fine, mi sento di seguire la massima di Jean Renoir, che diceva che la vera arte è far bene le cose. Fosse anche in cucina…
Hai ancora sogni nel cassetto?
Ho un progetto di serie internazionale a cui tengo molto e che sto cercando di realizzare da almeno dieci anni, se non di più.
È un progetto costoso e complesso, che richiede coproduzioni americane e italiane, e forse questo non è il momento migliore per portarlo avanti, visto che andiamo incontro a una riduzione delle risorse economiche a disposizione dei network.
Però non demordo e sono ottimista – si è capito che sono ottimista? D’altra parte se non lo fossi 27 anni fa non avrei lasciato un lavoro sicuro a Bari in una casa editrice per venire a Roma e fare di tutto per sfondare nel mondo del cinema dove, come dice il mio agente, se ti va bene puoi aspirare a essere “benestante a tempo determinato”.
Nuovi progetti?
Spero che ci faranno fare una seconda stagione di “Kostas”, ci sono dei bellissimi romanzi di Markaris che raccontano la crisi della Grecia e che aspettano di essere adattati.
Poi sono appena iniziate le riprese della quarta stagione di “Imma Tataranni” e della quarta di “Makari”, di una serie per Raiplay che s’intitolerà “Hype”, che mi ha consentito di entrare nel magico mondo della musica rap/trap, e il 21 ottobre andrà in onda su Raiuno la miniserie “Mike”, su Mike Bongiorno, un progetto a cui tengo molto, per la regia di Giuseppe Bonito con Claudio Gioè ed Elia Nuzzolo che interpretano il grande presentatore adulto e ragazzo.
La serie avrà la sua anteprima alla prossima Festa del Cinema di Roma. Poi forse mi riposerò un po’… Sulla tomba di Vittorio Gassman c’è scritto: “Non fu mai impallato”.
Su quella di Billy Wilder: “I’m a writer… nobody’s perfect”. Sulla mia vorrei che fosse scritto: “Non rifiutò mai un lavoro”.