Carlo e Dorian sono cresciuti insieme, condividendo tutto tra i banchi di scuola e il gruppo scout. Ora però è arrivato il momento della separazione: alle medie andranno in due istituti molto diversi. I nuovi incontri e le pressioni dei genitori mettono a dura prova la loro amicizia, finché si ritrovano avversari sul campo di calcio in una partita tra le loro classi. La posta in gioco è molto più di un semplice trofeo. Non una semplice partita di calcio, ma molto di più: di questo parla “La squadra dei sogni. Il cuore sul prato” (Gallucci editore) di Marino Bartoletti, noto giornalista, scrittore, autore e conduttore televisivo. Con lui abbiamo parlato del suo romanzo, di sport, della sua brillante carriera giornalistica e anche di musica e di Sanremo 2020.

Bartoletti, sta presentando in giro per l’Italia “La squadra dei sogni. Il cuore sul prato”, com’è nata l’idea?

“Perché un editore me l’ha chiesto. Avevo seguito dal vivo moltissime olimpiadi, migliaia di eventi sportivi e conoscevo moltissime persone e mai avevo pensato di scrivere un libro. Così, su consiglio dell’editore, ho cercato di scrivere qualcosa sull’etica dello sport per far comprendere al meglio anche ai più giovani. Sono anche diventato nonno, recuperando maggiormente il piacere di dialogare con i bambini. Non sospettando di avere in me queste potenzialità, è venuto fuori il primo libro – per ambientare il quale non potevo che scegliere la mia città natale (Forlì, ndr) – poi il secondo e ora devo cominciare il terzo”.

Perché ha deciso di dare proprio questo titolo?

“Penso che viviamo in una grande squadra, metaforica e non. Tutti noi abbiamo le nostre squadre, quella di lavoro, delle amicizie, del cuore; inoltre credo che fare gioco di squadra sia la cosa più bella che possiamo fare, oltre che la più educativa. “Il cuore sul prato” perché il prato è fonte di una grandissima metafora dove tutti abbiamo fatto qualcosa, o prendendo a calci un pallone o semplicemente rincorrendoci quando eravamo bambini. Per quanto riguarda il cuore, a parte l’importanza dell’organo in sè, c’è un riferimento al libro “Cuore” che si svolge in una scuola con tanti giovani che rappresentano quella che era l’Italia di allora. Nel mio libro emerge molto la componente dell’integrazione, ovvero persone che pian piano entrano a far parte della società”.

Quella che racconta non è solo una storia che vede come protagonista lo sport – il sano sport-  ma anche l’amicizia, quella vera, è così?

“Assolutamente sì. Nel primo libro c’è qualcuno che vorrebbe compromettere questa amicizia e naturalmente sono gli adulti che, una volta cresciuti, si dimenticano di essere stati ragazzi. Alla fine saranno proprio i giovani a dare lezione di sportività, di civiltà e persino di vita ai più grandi”.

Per lei il calcio, o meglio lo sport, cosa rappresenta?

“E’ ciò che mi ha incuriosito, conquistato e rapito a tal punto da diventare la mia professione, ovvero la mia piccola missione di vita. Dentro di me ho sempre quel bambino che negli anni ’50 seguiva, nel suo piccolo, lo sport in tutte le sue declinazioni; gioiva per tutte le felicità che venivano dai campioni locali. Lo stupore per me è rimasto lo stesso, anche dopo gli oltre cinquant’anni di lavoro. Se a quel bambino gli avessero detto che l’avrebbero pagato per girare il mondo seguendo lo sport, credo che avrebbe fortemente dubitato della cosa”.

Lei ha iniziato la sua carriera giornalista prestissimo, cosa l’ha spinta a intraprenderla?

“Probabilmente l’avevo già dentro. Mi iscrissi a Medicina come alcuni amici ma senza una particolare vocazione. Qualcuno poi mi disse che  potevo provare a fare il giornalista; bussai alla porta dell’unico quotidiano locale che c’era allora, ovvero il Resto del Carlino, e mi presero. Dopo circa due anni, mi trasferii a Milano su consiglio di chi forse aveva capito che potevo farcela. Non aveva torto, per fortuna”.

Lei è partito da Forlì, sua città natale, ma cosa porta sempre con sé di questa città?

“Se qualcuno vuole farmi un complimento può usare due parole, ovvero dire che svolgo il mio mestiere con un amore artigianale – ed essendo figlio di artigiani questo mi lusinga moltissimo, in quanto l’arte è fatta dalle mani e dal cuore – e dire che sono un provinciale, perché ritengo che la provincia possa arricchire a livello culturale. Forlì è e resterà sempre la mia città, malgrado qualche piccola delusione umana; è la città dove i miei genitori mi hanno dato la vita, dove sono sepolti, dove ci sono i ricordi più belli. C’è un legame che mi ci riporta sempre”.

Qual è secondo lei il compito del giornalismo oggi?

“Raccontare i fatti con molta onestà”.

Secondo lei questa onestà manca oggi?

“Posso dire che il giornalismo è figlio di tante pulsioni che non sono perfettamente limpide. Molto spesso si scrive quello che si pensa che la gente si aspetta che noi scriviamo e questo non è molto corretto. Credo che bisognerebbe essere allineati maggiormente con la propria coscienza, a costo di non farsi sempre degli amici”.

Lei è un vero esperto di musica, ha scritto infatti a 4 mani l’Almanacco del Festival di Sanremo. Quale definizione darebbe alla musica?

“E’ una compagna di vita insostituibile. Mi emoziona come nessun altro potrebbe fare. Mi comunica emozioni e commozione. E’ il ricordo di una bambino che è nato respirando musica, in quanto il padre suonava, ma ha voluto che suo figlio non suonasse perché sosteneva che un musicista non poteva mantenersi. La musica è la colonna sonora della mia vita. Oggi andare al Festival di Sanremo è come quando da piccolino in Corso Diaz vedevo in bianco e nero Domenico Modugno vincere con “Volare””.

Il festival di Sanremo cosa rappresenta per gli Italiani? E per lei?

“Ha un’importanza storica e sociale. E’ lo specchio dell’evoluzione del nostro Paese; copre quasi interamente l’arco dell’Italia repubblicana. Attraverso anche alla musica, è un Paese che ha ritrovato la sua strada, che si è divertito, emancipato e che ha ritrovato la propria identità.  Il festival e l’Italia hanno avuto le loro cadute, le loro scivolate, le risalite, il talento, le loro tragedie e le loro rivincite”.

Qual è stata la forza di Sanremo 2020?

“Ha incrociato i gusti di tutti; ritengo che chiunque di noi l’abbia seguito abbia avuto la possibilità di riconoscersi in qualche cosa, chi nelle canzoni, chi nelle parti più di spettacolo e chi nei forti messaggi sociali trasmessi. Le emozioni più forti mi sono arrivate da Paolo Jannacci, per quello che rappresenta, perché ero amico di suo padre, perché il suo papà mi scrisse la sigla di “Quelli che il calcio”, perché ha dedicato la canzone alla figlia ed io in quanto padre e nonno mi ha scosso molto. E’ inutile che noi anziani ci strappiamo i capelli perché non conosciamo un interprete. È inutile chiederci chi sono i Pinguini Tattici Nucleari, Achille Lauro o Rancore. Sono molto contento invece per averli apprezzati tutti perché, di fatto, chi ama la musica deve tenersi al passo con la contemporaneità”.