L’amore per il teatro, per l’arte della recitazione e per il cinema l’hanno sempre guidata in tutte le sue sfide professionali ma anche personali. Monica Guerritore è senza alcun dubbio la regina indiscussa del palcoscenico italiano, oltre ad avere una carriera contrassegnata da una serie infinita di personaggi, spettacoli e produzioni di successo. E’ sinonimo di concretezza, forza e passione viscerale un mestiere – quello di attrice – che l’ha portata ad essere diretta da registi come Strehler, De Sica e Comencini e ad affiancare attori come Mastroianni e Giannini. In queste settimane è in tournée teatrale con “L’anima buona di Sezuan” nelle vesti di interprete e di regista e presenterà anche il suo nuovo libro “Quel che so di lei”. Dei suoi esordi, dell’amore incondizionato per il palcoscenico, di cinema, di emozioni e, in generale, di vita abbiamo parlato proprio con lei.
Guerritore, sarai in scena con “L’anima buona di Sezuan” di Bertolt Brecht, cosa ti ha spinta a portarlo in scena?
«Il momento terribile che stiamo vivendo. Ci siamo infatti scoperti come cani ringhiosi uno contro l’altro; siamo sempre stati un popolo socievole, sociale e ironico, mentre ora sta emergendo sempre di più la rabbia, l’insoddisfazione, la cattiveria, la povertà d’animo e la solitudine che sembravano appartenere ad un altro mondo, ma evidentemente non era così».
Come porta in scena l’essere umano?
«Quello che Brecht racconta è focalizzato nel personaggio di Shen Te; attraverso il bisogno, il disagio e la povertà viene tirata fuori la maschera cattiva che è insita nell’essere umano. L’anima di Shen Te è buona ma diventa cattiva per difendere quel poco che ha, ovvero la sua tabaccheria e il figlio in arrivo: le sue mani diventano artigli e la sua bocca si riempie di ceneri. Brecht mette così in scena tipi sociali che a loro volta raccontano quelli che sono i tipi che sono intorno a noi. La bontà diventa debolezza».
Nella pièce teatrale emergono la tenerezza e l’amore per gli esseri umani, sei d’accordo?
«Assolutamente sì, è tutto permeato. Shen Te cerca di muoversi in questo mondo agitato da persone buffe, stranite e che non sono realmente cattive. Per Brecht, l’essere umano nasce buono».
Cosa rappresenta per te Strehler?
«Tutto perché io non ero nulla quando sono arrivata al Piccolo Teatro. Un angelo probabilmente mi ha preso con sé consigliandomi di accompagnare una mia amica a Milano, convinto che lì avrei trovato la mia vita vera e così è stato. Lì mi sono messa in platea e non mi sono più mossa a tal punto che il maestro ogni tanto si girava e mi regalava perle di saggezza».
E’ con “Il giardino dei ciliegi” che fai il tuo ingresso sul palcoscenico, ma cosa vuol dire stare su un palco?
«Ho cominciato talmente presto che è come se la mia anima artistica si fosse proprio adattata al corpo e viceversa. Non è una professione, ma uno stato dell’essere. Ho cominciato con un regista visionario e ho continuato con Gabriele Lavia che di fatto era un figlio di Strehler».
Quale scopo ha un’interprete nei confronti della vita?
«Nei confronti della vita non saprei ma nei confronti di altri esseri umani con cui si condivide questo passaggio terreno direi di sì. Cerco costantemente di pormi delle domande».
Cosa significa essere attrice?
«Questa è la mia vita. Vuol dire cercare di capire l’essere umano, di cosa ha bisogno e di combattere l’avidità che popola questo tempo. Sono un servitore della narrazione».
Ha prestato la voce ad Alda Merini e Oriana Fallaci, ma qual è la loro rispettiva forza?
«Sono donne sgarbate, che hanno aperto le porte a una libertà femminile piena di energia. La Fallaci non ha avuto paura di non corrispondere all’immagine del femminile. La Merini non ha separato l’intelletto dal corpo, la poesia metafisica è diventata carne».
Non solo teatro ma anche tanto cinema ma cos’è per lei il grande schermo?
«L’amore di un regista. Non cambia nulla per quanto riguarda la capacità immaginaria di lavorare su un personaggio. Chi sta dietro la macchina da presa deve sedurre e condurre l’interprete in quella storia che si va a raccontare».
Non solo nella recitazione ma anche nella scrittura. Presenterai infatti “Quel che so di lei. Donne prigioniere di amori straordinari” in cui si parla di donne ma non solo. Ci spieghi meglio?
«E’ proprio così; la solitudine, il desiderio e la perdizione appartengono al passaggio verso la morte di Giulia Trigona, zia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uccisa dal suo amante».
Hai anche scritto un altro testo. Ma qual è “La forza del cuore”, partendo proprio dal titolo del precedente libro?
«Quella di adattarsi ai cambiamenti, di vivere pienamente avendo ben a mente che ci sarà un momento di valle e poi di picco. Vuol dire accompagnare i battiti del cuore e i suoi sussulti nella vita che corre, senza fare e farci critiche e resistenza. Il libro si chiude con la frase: “Sono diventata la persona da niente che ero” a dimostrazione di come, mattoncino dopo mattoncino, costruiamo noi stessi».