Gullotta, perché ha detto sì a questo progetto?
“E’ uno spettacolo che portiamo in giro da ben due stagioni teatrali con un grande incontro del pubblico. “Pensaci Giacomino” è una macchina da guerra come testo e riesce ad arrivare con impatto immediato. Non si portava a teatro da circa 30 anni. Riesce a snocciolare circostanze di contemporanea efficacia: si affronta la solitudine e la condizione femminile, l’arrivismo dei burocrati, l’invadenza dei rappresentanti ecclesiastici e l’ipocrisia sociale. E’ una tragedia civile”. E’ la vicenda di un uomo che vuole aiutare con la sua piccola pensione i più giovani”.
In questo spettacolo troviamo tutte le caratteristiche letterarie di Pirandello, perché a distanza di decenni le sue opere vengono ancora portate in scena?
“E’ universale, come tutti i più grandi autori; non viene rappresentato solo in Italia ma nel mondo. Emerge un’attenta osservazione della realtà che di fatto non è molto diversa da quella che viviamo”.
Il finale di “Pensaci Giacomino” è pieno di un’amara speranza, è d’accordo?
”Esatto. Emerge la speranza pirandelliana anche se piuttosto amara, la stessa che dovremmo avere anche oggi. Ogni singolo uomo deve averla. Ognuno di noi deve prendere coscienza di sé stesso e della realtà che gli sta intorno”.
Se Giacomino prende coscienza di sé, nel 2019 abbiamo coscienza di noi stessi?
“Dobbiamo riprendere coscienza dei valori, della memoria, delle nostre radici; non possiamo vivere di slogan, ma cercare di capire noi stessi e le realtà che ci circonda, nonostante l’enorme confusione in cui siamo immersi. Dobbiamo sempre essere curiosi e analizzare quello che sta avvenendo intorno a noi. Quello che è accaduto a Liliana Segre è offensivo alla buona intelligenza dell’essere umano. E’ difficile essere uomini in questo momento”.
Per lei il teatro cosa rappresenta?
”Un luogo in cui possiamo stare insieme, che cerca di dare degli stimoli, per imparare, per incuriosire e per emozionarsi”.
Victor Hugo affermava: “Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco”, lei è d’accordo?
“La mia è una professione molto complessa di cui il pubblico conosce solo la parte finale. Arrivo sul palco perché qualcuno mi ha vestito, mi ha truccato, mi ha diretto, ha messo le luci e così via. E’ un’unione sana. E’ fondamentale studiare e quindi conoscere. L’Italia è il Paese dove tutti fanno tutto ma non dovrebbe essere così”.
Ha sempre voluto fare questo mestiere?
“Ho iniziato a 14, per caso e per una serie di situazioni. Sono nato in un piccolo paese, povero, ultimo di sei figli con mio padre operaio pasticcere. Tutti per fortuna abbiamo potuto studiare. Non c’era niente in quel periodo, ma sono sempre stato un bambino molto curioso. Mi sono così ritrovato a lavorare per ben dieci anni con il teatro di Catania”.
Cosa significa essere attore?
“Attraversiamo il passato e il presente, e a volte anche il futuro. Vuol dire essere un traduttore simultaneo dell’animo umano, un compito non facile di questi tempi”.
Lei è di Catania ma è spesso in giro per l’Italia per lavoro, ma cosa porta con sé della sua città e del suo essere siciliano?
“Porto sempre e da sempre la mia radice. Viaggio spesso e osservo. Vedo l’evoluzione e l’involuzione di ciò che mi sta attorno”.