Barbara Ronchi in “Rapito” di Marco Bellocchio: « Le maggioranze religiose sono state troppo intolleranti nei confronti delle minoranze»
Bologna, 1858. Le guardie pontificie di Pio IX, per ordine del Tribunale dell’Inquisizione, si presentano a casa della famiglia ebrea dei Mortara.
Il figlio Edgardo, di sei anni, viene strappato ai genitori perché una domestica cattolica sostiene di averlo battezzato in segreto quando era appena nato.
Il padre, la madre, la famiglia e gran parte della comunità ebraica cercheranno di riportare a casa il bambino. Anno dopo anno, Edgardo crescerà a Roma in collegio e diventerà sacerdote.
La notizia fece il giro del mondo eppure “il caso Mortara” restò senza giustizia. Presentato in anteprima in concorso al Festival di Cannes, è nei cinema uno dei film più intensi dell’anno: “Rapito“ di Marco Bellocchio.
Il regista ha scelto una storia che aveva già attratto l’interesse di Steven Spielberg e l’ha realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l’azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.
Dopo “Esterno notte“, Marco Bellocchio è tornato a confrontarsi con uno dei capitoli più cupi della storia italiana, ovvero quella della Roma papalina.
Nella pellicola cinematografica troviamo il rapimento del piccolo Edgardo Mortara e la manipolazione della sua giovane mente pura da parte della Chiesa, ma anche un’intera famiglia presa in ostaggio in una tragedia reale, l’illusione di una giustizia naturale e giuridica in un Paese in cui la giustizia non esiste.
Si tratta di un film a tratti disturbante, storico, metafisico, anticlericale, potente e non conciliato.
Nel cast, oltre ai bravissimi Enea Sala, Fausto Russo Alesi, Leonardo Maltese, Fabrizio Gifuni, Filippo Timi e Paolo Pierobon,
troviamo un’intensa Barbara Ronchi (ritratto Mirko Morelli e ph. Anna Camerlingo) – madrina del Pigneto Film Festival 2023 -, perfetta nel ruolo della madre del figlio rapito e fresca della vincitrice del David di Donatello per “Settembre”.
Ne abbiamo parlato proprio con lei.
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Barbara, partiamo dall’inizio. Come sei entrata in questo film?
Inizialmente ho fatto un provino con il regista, successivamente ne ho fatto un secondo con Enea, il bambino che veste i panni di Edgardo.
Fortunatamente siamo stati scelti entrambi. La preparazione è stata piuttosto lunga: io e Fausto Russo Alesi siamo stati a contatto con la comunità ebraica di Roma e Bologna partecipando anche a riti ed eventi di quella fede religiosa.
Abbiamo avuto un coach di ebraico per imparare le preghiere e le attività quotidiane di una famiglia. Era importante capissimo appieno quanto poi saremmo andati a interpretare.
Conoscevi già la storia della famiglia Mortara?
Purtroppo no. La storia della famiglia Mortara è diventata un caso famoso perché soprattutto alimentata dal periodo storico in cui è avvenuta, ovvero in un periodo in cui l’Italia non era ancora formata ed emergeva la figura del Papa Re.
Tu e Fausto Russo Alesi come avete lavorato nel ruolo di genitori?
Con Fausto si è creata da subito un’ottima sintonia, umana e professionale. Non ci siamo basati sulla nostra esperienza genitoriale perché lo reputavamo troppo doloroso.
I genitori di Edgardo hanno portato sul tavolo degli imputati un esponente della Chiesa cattolica, hanno lottato e cercato di riavere il loro bambino, insieme.
L’unica immagine della donna che porti sul grande schermo è quella di una donna anziana, seduta al centro insieme ai due figli. Sembra quasi che sia una donna divisa a metà. E’ giusta questa definizione?
Direi di sì. E’ madre di altri sette figli, oltre a Edgardo. E’ una donna a cui tolgono la cosa più importante che ha, suo figlio, ma mantiene la dignità della fede. Le hanno tolto tutto, ma quello no. Le hanno chiesto di convertirsi ma lei non ha mai ceduto.
Come la descriveresti?
Attraversa tutte le fasi della disperazione: dalla rabbia alle resa.. E’ una donna che combatte fino alla fine, non si arrende, è determinata nel riavere suo figlio, ma è un essere umano spezzato in due con una ferita enorme dentro di sé.
Quella che portate sul grande schermo è una storia forte, intima che poi diventa popolare, sulle contraddizioni di dei periodi storici più cruciali del nostro Paese. Qual era il significa di giustizia e di amore, secondo te?
L’amore è sempre lo stesso, non cambia e mai cambierà, quello tra un genitore e un figlio e viceversa resterà intatto. La giustizia risente moltissimo del contesto storico; emerge come le maggioranze usurpatrici siano state troppo intolleranti nei confronti delle minoranze.
Non è la prima volta che lavori con Marco Bellocchio. Eri già stata una madre nel film “Fai bei sogni”. Due madri molto diverse.
Nel primo film ero la mamma del protagonista che ai suoi occhi è sempre giovane, essendo morta presto; una madre sempre luminosa, bella, divertente, legata alle immagini dei ricordi e del passato.
In “Rapito” invece è una madre terrena, che vive il dramma sulle sue spalle e sulla sua pelle; è una mare forte e felina.
Com’è stato ritrovarlo il maestro del cinema?
Bellissimo, è stato come realizzare un sogno la seconda volta. Con Bellocchio ho avuto la mia educazione sentimentale al cinema, da lì è partito tutto.
Mi ha regalato il primo ruolo importante e l’opportunità di conoscerlo. Mi ha colpito il pudore che, da autore, dimostra nei confronti dei sentimenti, tutto nel suo mondo deve essere avvicinato con garbo, con misura. Ama i suoi attori e li protegge.
Prima del festival di Cannes ha vinto il David di Donatello per il film “Settembre”. Tu e i brividi di quel momento?
Rimarrà tutto indimenticabile; ho cercato di fermare la felicità. Mi sono sentita investita da un grande amore intorno a me, anche per la stima di molti colleghi nei miei confronti. E’ stata un’emozione travolgente con anche la vittoria della regista.
Cosa ti ha lasciato “Settembre”?
Resterà per sempre nel mio cuore; è stata un’esperienza bellissima che mi ha cambiato la vita.
I tuoi prossimi progetti?
Sarò ancora al cinema con “10 minuti” di Maria Sole Tognazzi e “Non riattaccare” di Manfredi Lucibello.