Paolo Cognetti
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Paolo Cognetti, la scrittura e la libertà: «Si viaggia per cambiare l’aria e rinfrescare la propria anima»

Paolo Cognetti

“Non pensavo di trovare un amico come Bruno nella vita e né che l’amicizia fosse un luogo dove metti le tue radici … e che resta ad aspettarti ” .

Questa è la frase con cui si apre “Le otto montagne“, il film che ci ha accompagnato per diverse settimane al cinema. Ci ha raccontato l’amicizia, quella vera e pura come l’aria in montagna dove è ambientata quest’emozionante storia.

Pietro e Bruno sono “inciampati” l’uno nell’altro; uniti da un legame che resiste, che non si dissolve negli ostacoli che l’esistenza molto spesso mette in bilico e dalle direzioni che assume, il loro è un legame che si trasforma crescendo e che muta anche con il tempo.

Una pace quieta che sembra far slittare oltre i ricordi e i rimpianti dei protagonisti che vivono ancorati ad un presente tutto da scrivere nel correre della vita. Il film fa respirare pienamente il romanzo, accogliendone l’intensa profonda silenziosità esistenziale.

Paolo Cognetti (Ph. Loïc Seron) – vincitore nel 2017 del Premio Strega per “Le otto montagne“- nei suoi libri ha il dono di osservare gli esseri umani in un costante dialogo con se stessi e con la natura.

Con una scrittura mai ridondante, bensì essenziale eppure così profonda, racconta di noi, di molti esseri umani come in pochissimi sono riusciti a fare. 

 

***

Paolo, “Le otto montagne” è  il libro che ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Una storia di amicizia, un viaggio e una continua ricerca per conoscersi e riconoscersi. Lo potremmo definire un romanzo di formazione?

Il modello è sicuramente quello. Molto spesso scrivo senza sapere bene dove sto andando, nel senso che non ho mai ben chiara la storia dall’inizio alla fine.

Sono uno scrittore infatti che prima di cominciare a scrivere ha bisogno di avere ben chiaro qual è il modello da seguire per non perdersi nelle parole. In questo caso, i classici di formazione li avevo ben presenti.

Paolo Cognetti

Pietro e Bruno, due amici così diversi eppure così simili. In cosa consiste la loro forza, secondo te?

Sono molto affettuosi l’uno con l’altro, riescono a comunicarsi affetto a vicenda. Sono due solitari.

Mi aveva ispirato molto il film “Brokeback Mountain”; al di là della questione dell’omosessualità non presente ne “Le otto montagne”, tra Pietro e Bruno c’è un legame che esclude tutti gli altri e che sembra che si possa realizzare solo lì, in montagna, solo nella casa che hanno costruito insieme.

Questo rapporto fraterno è sicuramente la loro forza ma anche lo loro debolezza. Bruno è una persona assoluta e il legame con Pietro non riesce a salvarlo.

 

Il 22 dicembre scorso è uscito il film tratto dal tuo romanzo: hai mai avuto la paura di ritrovarti con un audiovisivo diverso da quello che avevi immaginato quando hai scritto il libro?

Inizialmente – ovvero circa quattro anni fa – sì, prima di conoscere i due registi e prima di partecipare alla lavorazione del film ma non appena il racconto cinematografico ha preso forma, ho subito capito che la strada intrapresa era quella giusta.

Felix e Charlotte  inizialmente non parlavano l’italiano e mi sono ritrovato a essere un po’ interprete e un po’ mediatore culturale. La produzione aveva dato loro piena libertà, motivo per cui avrebbero potuto girare un film in lingua inglese.

Hanno invece preferito rimanere fedeli non solo al libro, ma anche a tutto ciò che li aveva ispirati: la montagna, le Alpi, l’alpeggio. Tra l’altro, hanno girato a Estoul, accanto a casa mia. Ci siamo frequentati per due anni perché volevano vedere quei luoghi con il cambiare delle stagioni.

Luca Marinelli ha fatto un lavoro pazzesco; è salito tre mesi prima dell’inizio delle riprese. Siamo stati sempre insieme a camminare ogni giorno, a cena, davanti al fuoco e a suonare la chitarra; abbiamo passato un’estate magica e momenti che resteranno indimenticabili.

Man mano vedevo il realizzarsi del film, non avevo quasi bisogno di andare sul set assistendo alle riprese, stava già tutto accadendo.

 

Paolo Cognetti

Nel documentario “Sogni di grande Nord” che ti ha visto protagonista al cinema parli di fatica e di condivisione, di disciplina, misura, essenzialità e semplicità. E’ questo il significato della scrittura?

E’ il mio modo di affrontarla. Le parole che hai usato, mi riportano a Hemingway e a Rigoni Stern, coloro che mi hanno insegnato a scrivere. C’è chi scrive cercando l’abbondanza e chi in maniera sregolata; la mia scrittura è invece quasi una forma di disciplina monastica o un’arte marziale.

Mi sento quasi un monaco: mi sveglio al mattino e dedico due o tre ore alla scrittura, se non lo faccio non mi sento tranquillo in quella giornata. E’ così da oramai diversi anni, da quando ne avevo circa venti.

 

Ed il viaggio?

E’ un’apertura, una pulizia, un prendere il respiro aprendo le finestre di una stanza che a volte è un po’ stantia che di fatto siamo noi stessi. Si viaggia per cambiare l’aria e rinfrescare la propria anima.

 

Possiamo dire che l’incontro con “Into the wild” ti ha cambiato un po’ la vita? 

Assolutamente sì. In realtà, sono stati due i film che l’hanno cambiata; oltre al film di Sean Penn, c’è anche “L’attimo fuggente”. Avevo 12 anni e ho fatto in tempo a vederlo al cinema; è stata la prima volta che ho pensato che sarebbe stato bello fare lo scrittore.

Il professor Keating insegnava a studenti molto seri e inquadrati il romanticismo, la poesia e l’arte ed io mi apprestavo ad essere un adolescente proprio come loro. Vedere quel film mi ha aperto un’altra prospettiva. “Into the wild” invece l’ho visto al mio trentesimo compleanno, un’età che è stata decisiva sotto diversi aspetti.

Venivo da un periodo di crisi, dovuto un po’ a me e un po’ al contesto e quel film è stato un importante spartiacque che mi ha indicato una possibile strada da percorrere.

 

Paolo Cognetti

C’è qualcosa che ti accomuna agli studenti de “L’attimo fuggente” e a Christopher McCandless?

Certamente. Come loro, ero un ottimo studente e figlio di un padre piuttosto esigente. Chris aveva dentro di sé una radicalità che l’ha portato altrove, aveva cioè un profondo anticonformismo; non poteva essere come tutti gli altri, non poteva attraversare una strada già così ben decisa per lui, ne doveva trovare una diversa. Tutto questo lo sento anche molto mio.

 

Cosa porterai sempre con te del viaggio compiuto fino all’Alaska?

Non dimenticherò mai la notte trascorsa dentro il Magic Bus: una notte quasi insonne, pioveva, i vetri dei finestrini erano rotti e noi eravamo zuppi di pioggia; era giugno e non la notte non arrivava mai.

Io e Nicola Magrin abbiamo passato ore ed ore ad alimentare il fuoco in quel bidone che faceva anche da stufa; abbiamo pensato a McCandless, al suo resistere in quei mesi a dormire in quella brandina.

 

Henry Thoreau scriveva dalla sua capanna: «In casa mia avevo tre sedie: la prima per la solitudine, la seconda per l’amicizia, la terza per la società». E’ questo per te il rifugio?

Assolutamente sì. Sulla prima mi sono seduto a lungo fino quasi a consumarla, la seconda mi ha fatto incontrare i miei amici Remigio e Gabriele e la terza è quella più complessa per me.

Quando non si è più in due bensì in tre, le dinamiche tra le persone cambiano; è quello che sto cercando di fare adesso, ovvero un rifugio di condivisione dove costruire piccoli esperimenti di società.

 

All’interno del tuo libro “Senza mai arrivare in cima”, c’è un acquerello su carta di Nicola Magrin  “A forza di essere vento” che ti vede rappresentato. Ti senti una forza in continuo movimento?

Mi è sempre piaciuto il vento. E’ un elemento che in Himalaya è onnipresente e quando mi trovo in quei luoghi penso sempre al cielo e al vento; si vedono tantissimi uccelli rapaci sospesi in aria che sembrano galleggiarci dentro.

Le bandierine di preghiera tibetane si attivano quando soffia il vento ed è come se quest’ultimo fosse l’anima della montagna, lo sento come un elemento amico.

Il giorno dopo che è venuto a mancare Gabriele, c’è stato un vento molto forte a Estoul; non è un posto particolarmente ventoso, eppure in quella giornata i larici si piegavano a tal punto da pensare che si potessero spezzare.

Ho sempre pensato che fosse la sua anima che passava da lì prima di andarsene. Ogni volta che sento il vento penso a lui.

 

Paolo Cognetti

Nel tuo ultimo romanzo “La felicità del lupo” ci racconti di Fausto, di Babette, di Silvia e di Santorso; che esista o no il luogo della felicità, i personaggi di Fontana Fredda sentono di essere esattamente dove devono stare. Anche per te è così? Qual è per te il luogo della felicità?

Per quasi tutti i miei personaggi, la felicità è molto vicina alla libertà, riescono ad afferrarla vivendo come desiderano. Questo molto spesso corrisponde ad un luogo ma a volte quel luogo non è più sinonimo di felicità.

E’ una sensazione che conosco piuttosto bene. Non solo la montagna mi rende felice, ma anche la città, l’arte, lo yoga e lo studio della filosofia buddista.

Tutto questo mi serve per costruire il mio rifugio interiore che di fatto è quello che mi porto dietro ovunque perché è una baita che ho nel cuore, non fuori.

 

La città e la montagna, per te sono due opposti o due complementari?

Direi entrambi. Conosco il bello e il brutto di ognuno. A volte scappo dal frastuono cittadino per raggiungere la quiete della montagna, mentre altre me ne vado da quest’ultima perché non resisto più al senso di isolamento e all’essere parte di una comunità così piccola dove vedo sempre gli stessi volti e sento il bisogno di andare in libreria, al cinema e ascoltare la musica, consapevole di incontrare nuove vite sconosciute.

Quando vivevo a New York, mi sentivo come in un bellissimo sogno, un meraviglioso esperimento dell’umanità che si è trovata tutta lì a convivere.

 

I tuoi prossimi progetti?

“La felicità del lupo” è un libro di alta quota perché si arriva fino ai quattro mila metri, c’è tanta luce lì; eppure c’è anche un altro lato della montagna che invece è basso, più legato al fondovalle, all’ombra, è più cattivo e oscuro. Mi piacerebbe molto poter raccontare l’altra metà.

 

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Giulia Farneti
Quando la musica, il cinema, il teatro e la televisione si uniscono al giornalismo dando vita a una passione costante per l'arte, lo spettacolo è inevitabile. Dopo aver collaborato con il quotidiano Infooggi (redazione siciliana) occupandosi di criminalità organizzata, ha aperto anche la rubrica settimanale “Così è (se gli pare)” di cui era anche responsabile con Alessandro Bertolucci. Ha collaborato con i quotidiani La Nostra Voce, Resto al Sud e con il mensile IN Magazine. Attualmente collabora con il Corriere Romagna che ha sede a Rimini, con il mensile PrimaFila Magazine che si occupa di cinema e libri, ed in ultimo ma non per importanza, con Showinair.news, l'attuale Testata Giornalistica, con articoli e interviste inedite a personaggi dello spettacolo del cinema, televisione, teatro, musica e articoli di cultura.