Margot Sikabonyi
Al cinema con BOCCHE INUTILI: «Non dobbiamo smettere di ricordare per non commettere più gli stessi errori»


Ester è una donna ebrea di 40 anni di origini italiane rimasta sola, quando la sua famiglia è stata deportata. Lei viene condotta a Fossoli dove si trova un campo di transito.
Qui conosce Ada, con la quale fa amicizia, sebbene siano destinate ad allontanarsi, perché poco dopo il suo arrivo Ester viene nuovamente trasferita in un altro campo, cosa che le evita il convoglio diretto verso Auschwitz, dove l’unico destino ad attenderla sarebbe stato morire.
Lei e Ada condividono un segreto, legato a una delicata missione: Ester è incinta e deve cercare di salvare se stessa per il bambino che porta in grembo.
Ma l’amicizia stretta con Ada sarà così forte da tenerla al sicuro? Potrà davvero fidarsi di lei o Ada la tradirà?
Dal 25 al 29 aprile nelle migliori sale cinematografiche è uscito “Bocche inutili“, distribuito in collaborazione con la rete degli esercenti di Galassia Cinema.
Un film in cui viene descritta la privazione di qualsiasi forma di dignità e di quei diritti inviolabili riguardanti le libertà e i valori basilari della persona a cui è stata sottoposta un’intera umanità di uomini, bambini e donne.
Oltre a Lorenza Indovina, Nina Torresi, Morena Gentile, Anna Gargano e Patrizia Loreti, troviamo un’intensa Margot Sikabonyi che abbiamo già avuto modo di conoscere ma che in quest’occasione cinematografiche ha regalato veramente brividi di eccezionale bravura.
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Margot, partiamo dall’inizio. Cosa ti ha portato a dire sì a questo progetto per il cinema?
Non potevo proprio dire di no. La proposta è stata del tutto inaspettata ma meravigliosa. Questo è un film coraggioso, come pochi. Si tratta di un movie che non solo pone i riflettori su un argomento molto delicato come la Shoah, ma affronta tematiche che devono sempre essere oggetto di riflessione. La sceneggiatura era ben scritta. Il mio è stato un ritorno sul grande schermo dopo diverso tempo e ne sono felicissima.
Come ti sei preparata per impersonare questa grande donna per il grande schermo?
Sono partita da testimoni di questo orrore come la Segre ed altri sopravvissuti. Ho letto molto, in particolare “Inferno sotto al cielo” di Sarah Helm. Inoltre sono andata nel luogo esatto in cui sarebbe stata ambientata la storia, ovvero nel campo di Fossoli che di fatto è dove abbiamo girato.
Sei Ester. Come la descriveresti?
E’ una donna che entra a Fossoli spaventata e completamente spaesata. Se prima era abituata alla sicurezza della famiglia, ora si trova a faccia a faccia con una realtà completamente diversa. Non appena comprende di trovarsi in un inferno, cerca la forza dentro di sé. La sua integrità umana sarà la sua salvezza, la stessa che le permetterà di far gruppo con le altre donne.
Fede e speranza accompagnano questa giovane donna in questo doloroso viaggio. In che modo?
Ester ha un Credo piuttosto forte che non l’abbandona mai e la speranza è quel piccolo bambino che sta crescendo dentro di lei.
Com’era la sua vita prima di quest’inferno?
Era una donna vicino alla quarantina che si è sposata un po’ in ritardo; era circondata da una famiglia affettuosa e ha sempre condotto una vita piuttosto serena coltivando sogni sul suo domani.
Nel primo frame del film si prende in considerazione la citazione del filosofo Emmanuel Levinas, ovvero «la femminilità ci è apparsa come una differenza (…) non soltanto come una qualità differente da tutte le altre, ma come qualità, appunto, della differenza». Emerge quindi il concetto di femminilità nella sua interezza, facendo emergere una duplicità strettamente consequenziale. Sei d’accordo?
Certo che sì. Credo che scegliere, come ha fatto il regista, di parlare di femminilità sia una scelta molto importante per un periodo di cambiamento come quello che stiamo vivendo. Il nostro essere donne è sempre stata qualcosa di imprigionato per millenni ma ora fortunatamente si stanno facendo passi avanti. Oggi le donne fanno gruppo instaurando molto spesso un legame di sorellanza.
Dalla messa in scena, si nota la divisione tra il dentro del dormitorio e il fuori del campo di prigionia. Cosa emerge da questa contrapposizione?
Volevamo coinvolgere sempre di più lo spettatore fino quasi a farlo sentire parte integrante della baracca; questo senso claustrofobico ha fatto sì che ci fosse un maggiore coinvolgimento emotivo. La finestra era l’unica divisione tra l’esterno, ovvero l’orrore, l’inferno, l’inaccettabile, e l’interno, ovvero una sorta di piccolo rifugio che tuttavia non si può chiamare vita.