VIOLA RISPOLI
Sceneggiatrice di “DOC 2” e non solo: «Essere sceneggiatrice vuol dire avere la possibilità di lavorare sulla narrazione in un contesto di squadra»
Questa sera vedremo un’altra ed entusiasmante puntata di “Doc – Nelle tue mani”, la serie televisiva che ha tenuto, nel corso della prima stagione, incollati al piccolo schermo milioni di telespettatori.
Anche quest’anno questo medical targato Rai1 non sta deludendo, anzi sta emozionando sempre di più. Con al timone della fiction Beniamino Catena e Giacomo Martelli e con la produzione della Lux Vide, “DOC 2” porta la firma, oltre che quella di Francesco Arlanch, di Viola Rispoli la cui penna di indiscutibile bravura sta diventando sempre più nota.
Con lei abbiamo parlato della fiction campione d’ascolti con Luca Argentero e non solo.
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Viola, partiamo da “DOC”, cosa ti ha spinto a continuare quest’avventura televisiva?
Non so se riuscirei mai ad abbandonare una serie alla prima stagione. Uno la porta in grembo per così tanto tempo, la vede nascere, e poi non la accompagna per i primi anni di crescita? Le serie tv sono come gli elefanti: per la mole, e perché i cuccioli vivono con la madre per i primi tre anni di vita.
Anche questa seconda stagione sta risultando avere un boom di ascolti, per quali motivi secondo te?
Soprattutto per la complessità dei personaggi, mi auguro. Forse siamo riusciti a costruire una costellazione di personaggi, a partire da Fanti ovviamente, sfaccettati, verosimili, che assomigliano a molti di noi o potrebbero assomigliarvi, nei loro pregi e nei loro difetti. E poi perché abbiamo fatto la scelta precisa di farne degli eroi, che è quello che ognuno idealmente vorrebbe trovare in ogni medico che incontra. Eroi non vuol dire che non commettono errori. Vuol dire che mettono il loro lavoro, la loro vocazione di medici, davanti a tutto, anche a se stessi.
Luca Argentero è Andrea Fanti, perché avete scelto proprio lui come protagonista nella prima stagione?
Per l’entusiasmo e l’adesione che ha subito dimostrato al progetto e al personaggio, già alla lettura della prima idea. Ci è sembrato che lo avesse capito e amato fin da subito, come era successo a noi.
Quella del camice bianco è una figura molto importante, soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo. Qual è, secondo te, il compito di un buon medico?
Capire la persona che ha davanti. Oltre a essere un medico capace, ovviamente. Ma le competenze da sole sono meno efficaci delle competenze unite a una buona relazione di fiducia, che si instaura quando una persona si sente capita.
“DOC” parla di malattie, di virus e anche di morte. Che tipo di rapporto hanno i medici del reparto con quest’ultima?
L’accettano negli altri e la mettono in conto per se stessi. Questo non vuol dire che non ne soffrano, o non ne abbiano paura.
Non solo aspetti negativi, ma anche tanti aspetti positivi come la speranza, la forza di non lasciarsi mai abbattere e tanta, tanta vita. In che modo il sorriso possiamo dire sia protagonista di quest’amata serie tv?
Uno ci mette sempre un po’ di sé in quello che scrive. Forse e per fortuna noi riusciamo ancora a non prenderci sempre troppo sul serio, a cercare il lato buffo delle cose, e magari a coltivare un po’ di ottimismo. Che poi in una serie sulla medicina e le malattie è indispensabile, o fai come Giacomo Poretti nella seconda puntata di questa stagione: pensi subito a buttarti dalla finestra.
Avete affrontato anche una tematica che, in maniera diretta o indiretta, ha toccato tutti, ovvero quella del Covid. Cos’ha significato vivere anche per finzione quei terribili momenti?
Ha significato prima di tutto rendere omaggio all’enorme lavoro che il personale sanitario si è sobbarcato in questi anni, ai morti di covid e ai sacrifici che abbiamo fatto tutti.
Cosa ti auguri arrivi di questa seconda stagione?
Lo sforzo con cui ogni personaggio (e quindi ognuno di noi), ha fatto e sta facendo per gestire nella propria vita le conseguenze di qualcosa che ha investito il pianeta intero come mai prima d’ora. Forse solo il cambiamento climatico ci riguarda tutti come pianeta, ma purtroppo non è percepito e comprensibile come una pandemia, o magari avremmo trovato il modo di reagire anche a quello.
Fai questo mestiere da diversi anni, perché l’hai scelto?
Scrivere è quello che ho sempre voluto fare nella vita. Il dottore o il poliziotto o l’astronauta non l’ho mai detto da bambina. Dicevo la scrittrice anche a sei anni e da bambina scrivevo storielle. Per molto tempo ho avuto in mente solo i libri, però. L’unica forma di scrittura che conoscevo. Poi ho avuto la fortuna di incontrare la sceneggiatura, l’ho studiata e non l’ho più lasciata.
Cosa significa essere sceneggiatrice ai giorni nostri?
Per me significa più di tutto quello che ha sempre significato, e cioè avere la possibilità di lavorare sulla narrazione, ma in un contesto di squadra, che è una delle cose che mi piace di più di questo lavoro: sapere che io getto le fondamenta e stendo il progetto, ma che non ci sarà il palazzo senza il lavoro di tante altre figure professionali con cui collaborare, ragionare, spesso anche discutere. Poi naturalmente oggi ti dà anche l’opportunità di raggiungere chiunque, dovunque, più di quanto non sia mai stato possibile.
I tuoi prossimi progetti?
Una nuova serie sugli esordi straordinari e poco noti di una nota e controversa giornalista italiana, che è già in scrittura, e alcuni progetti che sto valutando. E naturalmente Doc 3.