CARLO MAZZOTTA Sceneggiatore di “Tutta Colpa di Freud – La serie”
«Senza una forte identità, oggi più che mai, una serie non ha futuro»
Francesco è uno psicanalista cinquantenne che, dopo aver cresciuto tre figlie praticamente da solo, pur essendo molto legato a loro, è sollevato dal fatto che tutte abbiano lasciato il nido e che non dovrà più patire dietro ai loro guai.
Quando però un dolore improvviso gli fa credere di stare avendo un infarto e finisce al pronto soccorso, Francesco si ritrova con Sara, Marta ed Emma di nuovo a casa. E con il ritorno delle ragazze sopraggiungono anche gli attacchi di panico.
Su Canale 5 stiamo vedendo la fiction “Tutta Colpa di Freud – La serie“, creata adattandola dal film con Chiara Laudani e da Paolo Genovese che si ispira all’omonimo film del 2014 diretto dallo stesso Genovese.
La serie tv, diretta da Rolando Ravello, in realtà non è completamente inedita in Italia, ma è già stata rilasciata interamente su Amazon Prime Video nel 2020.
Non è una fiction sulla psicanalisi, né sulla terapia di coppia, ma sulle differenze in amore e sulla difficoltà di accettarle.
A scriverne la sceneggiatura è un penna piuttosto nota, quella di Carlo Mazzotta, che conosciamo per aver firmato “Don Matteo“ – del quale sceneggia sin dalla prima serie il maggior numero di episodi -, “La Squadra“, “A un passo dal cielo“, “Carabinieri“, “Ho sposato uno sbirro“, “Nassiriya – per non dimenticare“, “Don Bosco“, “Pinocchio” e “Boris“, solo per citarne alcuni.
Noi di Showinair ne abbiamo parlato proprio con lui della sua ultima fatica, dei suoi esordi, del suo passato da giornalista e del complesso mestiere di sceneggiatore.
***
Carlo, in queste settimane stiamo vedendo su Canale 5 “Tutta Colpa di Freud – La serie”, in cui firmi la sceneggiatura. Com’è nata l’idea?
Il progetto nasce in Lotus Production come un adattamento di serie per Mediaset che ha poi deciso di collaborare con Amazon. Da qui la scommessa di realizzare un prodotto fruibile su entrambe le piattaforme.
Con leggerezza ma senza superficialità racconti l’animo umano, in che modo?
La relazione genitori-figli è un terreno ricchissimo dal punto di vista narrativo.
Il concept della serie tende ad approfondire, senza snaturare la chiave leggera del film originale, le vicende di questa famiglia “abbandonica” e la sua paradossale convivenza con la psicoanalisi.
Il fil rouge è sicuramente l’amore, in quale chiave ce lo descrivi?
Come elemento “disturbante”. L’amore ha sempre un effetto destabilizzante, persino scomodo se vogliamo. Eppure, come fanno i protagonisti della serie, lo si cerca in continuazione.
La tua firma è sempre molto presente, ma quale significato hanno per te la parola e quindi anche la scrittura?
Raccontare storie è un’opportunità per esprimere il proprio punto di osservazione, del mondo e di se stessi.
Ciò che ti tocca, e che ti può persino cambiare. Una ricerca, se vogliamo, che naturalmente non può fare a meno delle parole, e dei significati ad esse collegati.
Hai un passato da giornalista prima di dedicarti alle sceneggiature. Perché questo passaggio?
E’ sempre “colpa” delle parole. Da sempre ho amato la scrittura, mai avrei pensato che questo sarebbe diventato il mio mestiere. Da giovanissimo ho intrapreso l’attività di pubblicista collaborando con numerose testate e spaziando sugli argomenti. Diciamo che la scrittura creativa è stata la logica conseguenza.
Qual è il compito di uno sceneggiatore?
Il privilegio di fare questo lavoro è nella specificità di scrivere pensando per immagini. Se si può definire un compito, sicuramente è quello di comunicare l’interno, le emozioni che ci muovono, attraverso qualcosa di riconoscibile su uno schermo.
Che lo si faccia per intrattenere, o per stimolare altro è una sfida unica che non smette di appassionarmi.
Cosa vuol dire essere autori di numerose fiction televisive ai giorni nostri?
Complice la tecnologia, creare contenuto viene percepita come una cosa semplice, veloce, persino spontanea.
La realtà è che dare vita ad un film, o ad una serie, rimane un percorso tutt’altro che semplice e immediato.
In fase di scrittura e non solo vuol dire anzitutto… lavoro.
Duttilità e capacità di relazione con le componenti che contribuiscono ai vari livelli alla realizzazione di ciò che prende vita nel testo, cercando quanto più di rispettarne l’identità narrativa. Senza una forte identità, oggi più che mai, una serie non ha futuro.
Tutto è iniziato con “Don Matteo”, una fiction che ancora oggi registra un boom di ascolti. Per quali motivi secondo te?
Vari. Ma sul piano drammaturgico direi proprio l’identità, la sua immediata riconoscibilità che non ha comunque impedito alla serie di modificarsi, adattarsi ai tempi con progressive modificazioni del formato.
Quale valore attribuisci alla parola emozione?
Un’emozione, bella o brutta che sia, è l’ingresso di un elemento nuovo in un dato contesto. Chi racconta la evoca, la caccia, la produce, la stimola.
I tuoi prossimi progetti?
Sto scrivendo insieme ad Andrea Valagussa un crime in quattro serate per Rai1 di cui a breve inizieranno le riprese.