“Ritoccàti” è ambientata nello Studio Medico Basoccu e torna ad ospitare storie divertenti ma che fanno anche riflettere sulla chirurgia estetica, tema sempre attuale. Nella seconda stagione arriva un nuovo specializzando allo Studio, l’affascinante Sergio che non passerà di certo inosservato, soprattutto agli occhi di Vanessa. Marco invece non sarà molto entusiasta di questo arrivo. Anche gli altri protagonisti ne vedranno delle belle. Vincenzo ha a che fare con un figlio che non gli somiglia, Marisa per l’imminente matrimonio ha bisogno di un intervento particolare, Susanna vuole entrare in politica, ragione per cui vuole un nuovo look, per fortuna però Ester (la social media manager) la riporta sulla retta via. Chiara invece vuole un futuro migliore mentre Gianfranco ha una nuova compagna che vuole fargli un regalo inaspettato. “Ritoccàti 2″ dal 22 marzo è nuovamente su Sky Uno e tra i protagonisti troviamo anche il talentuoso Francesco Russo (Ph di Giulia Bertini) che si è fatto già conoscere al pubblico con “Classe Z” e “Tuttapposto”.
Francesco, sei presente nella seconda stagione di “Ritoccàti”, per quali motivi hai accettato il sequel?
“Mi aveva chiamato l’organizzatore su richiesta del regista Alessandro Guida e mi sono inorgoglito per il pensiero avuto nei miei confronti. E poi ogni progetto vale anche solo per l’esperienza che si fa. Almeno per un giovane attore come me. Ho accettato ben volentieri anche se ho dovuto fare tantissime corse Napoli-Roma perché contemporaneamente stavo preparando uno spettacolo. Ma ripeto, vale sempre la pena non rimaner fermi. Soprattutto in questo periodo, dove rimaner fermi è la regola. Sarebbe stato un assassinio rinunciare alla proposta. E poi mi piacevano i dialoghi scritti per il mio personaggio. Le battute erano tutte molto raffinate”.
Ci racconti un po’ del tuo personaggio?
“Tobia è il direttore amministrativo dello studio, si occupa dei conti, ama la precisione ed è sempre con i piedi per terra. Non perché sia umile, ma perché conosce solo quella dimensione. L’ho sempre immaginato come uno che vivesse con la mamma. La Domenica guarda il calcio, segue la politica attraverso il Tg e qualche talk show. Ha sicuramente qualche amico con cui condividere i pochi interessi (il sabato sera, magari). Ha forse una passione segreta per la disco music anni 90, quando studiava economia e voleva fare carriera in ambito accademico. Ma di tutta la sua vita (che mi sono divertito a immaginare), in “Ritoccàti” vediamo i piccoli comportamenti nel suo ambiente di lavoro, come si relaziona con la sua collega d’ufficio e con i pazienti dello studio. E non gliene importa un fico secco dei loro dilemmi estetici, per lui sono solo fatture”.
In cosa ti somiglia e in cosa siete diversi?
“Io faccio di tutto per essere lontano da casa, io impazzirei a lavorare dietro una scrivania, io non leggo l’oroscopo. Non so nemmeno quale sia il mio ascendente. Io fuggo dalla routine, lui ci sguazza. Ma alla fine cos’è una “routine”? Io magari non pratico quella dell’ufficio, ma quella dell’attore fatta di provini, set, prove, repliche e aperitivi. E credo che qualora venga tolta, a me e a Tobia, la nostra amata routine cadremo tutti e due nel panico. E siamo tutti e due imbranati al limite del patologico. Ed entrambi amiamo la leggera provocazione. E se facciamo qualcosa che possa ferire qualcuno inorridiamo di noi stessi, ma rimaniamo comunque in silenzio”.
In questa serie si parla di chirurgia estetica, tu come ti rapporti ad essa? Ritieni sia necessaria nella vita di ciascuno di noi?
“Non avevo mai ragionato più di tanto su questa materia prima di girare “Ritoccàti”. In realtà si tratta di un argomento un po’ delicato perché molte persone che ricorrono a un intervento estetico, si vergognano a dirlo. E quelli che lo sanno lo dicono ad altri sussurrando frasi come “si è rifatta il naso”, dando il via a un pettegolezzo senza senso. Ritengo la chirurgia estetica necessaria come ogni branca della medicina. La risposta a questa domanda, in realtà, è nel finale di ogni puntata: se necessaria l’operazione avviene, altre volte no. Tuttavia la necessità di un intervento è giudicabile solo dal medico e dal paziente. Le opinioni di un terzo sono inutili e inquinanti. La chirurgia estetica non è roba da talk-show”.
Il tuo rapporto con la bellezza?
“Io considero il doppio mento “brutto” e ne ho uno molto importante. Ma se mi guardo di profilo, mi piace molto, sembra che il mio viso sia più lungo. E ho una “piazza” tra i capelli, ma non posso vederla perché non ho occhi sul soffitto e rimanendo solo al “pensiero della piazza”, mi piace. Mi fa amare ancora di più i capelli che ho. E mio padre non è considerabile un bell’uomo, ma un giorno d’estate al tramonto tornai a casa e lui era in giardino che innaffiava l’orto. Saranno state le luci, sarà la musica silenziosa delle città estive, sarà stata la fatica del lavoro manuale, ma il suo volto era lucente, decadente quasi. “Bello” mi sembra sempre generico. Ciò che voglio dire, è che per me la bellezza riguarda il punto di vista. Riccardo III è storpio, gobbo, e anche cattivo. Ma se pensi che tutti sin dall’infanzia gli hanno detto continuamente che era storpio e gobbo, ecco che cominci a leggere nel suo sguardo una luce diversa e comincia ad esserti anche simpatico per i progetti malvagi che attua. E alla fine, quando muore, te ne dispiace anche. Se è interpretato sotto questo punto di vista, ovviamente. Il fatto che esistano punti di vista infiniti, non significa che siano tutti buoni allo stesso modo”.
Perché scegliere tra tanti mestieri quello dell’attore?
“Dato che ce ne sono già troppi in giro a sfracassare i coglioni?… Scherzo. Io a cinque anni sono capitato per caso su un palcoscenico a ripetere le battute, quella stessa sera dissi di voler fare l’attore, e poi non ho più smesso. Il perché, non lo so. A volte penso che era perché a scuola e in famiglia ti dicono continuamente che devi studiare per trovare un lavoro, ti parlano di lavoro in continuazione e poi che lo devi anche fare bene, che non basta il semplice lavorare. E allora io ho fatto l’attore perché mi dicevano che ero bravo. Poi ho scoperto (troppo tardi, ahimè) che dopo uno spettacolo (ma anche dopo un film) ci sarà sempre qualcuno che ti dice “bravo”. Sempre. A tutti gli attori e a quelli che vogliono fare gli attori è stato detto di esser bravi e non per forza dai genitori. Spesso è un complimento fatto dagli insegnanti che proliferano, così continuano a essere pagati. Oppure è un complimento che viene tirato fuori dalla domanda “allora? Ti è piaciuto?”, che alle volte può essere anche detta con i soli occhi, desiderosi di un qualche complimento per andare avanti. Ora che ci penso fare l’attore è un mestiere orribile, fatto di vuoti che aspettano continuamente di essere riempiti, di confronti continui con sé stessi, di richieste fatte all’ultimo momento (che pretendono di essere soddisfatte). E poi laboratori, provini, progetti che non vedranno mai luce, feste d’estate dove l’attore abbronzato è lo sfigato che non sta lavorando. È un mestiere difficile essere un attore. Ma è sempre meglio che lavorare”.
Ti sei fatto conoscere con “Classe Z”, cosa porterai con te di quell’esperienza?
“Il ritornare a scuola dopo qualche anno, e vederla sotto un altro punto di vista (appunto). Nel film i ragazzi cominciano a studiare non appena si allontanano dai banchi e s’immergono in un casale dove sono liberi di alzarsi, liberi di ascoltare il Prof lontano dal suono della campanella, liberi dalle regole, ma costretti in altre regole tutte nuove. E poi son tornato a scuola anche dopo aver girato il film, per le presentazioni, e ho avuto modo di assistere a un pullulare di curiosità. Molti degli studenti incontrati, ancor oggi mi scrivono e non parliamo del film, ma del futuro. Mi divertii tantissimo anche nelle prime prove fatte con Guido Chiesa, dove si cercavano gag e racconti da poter inserire nel film. C’era veramente la sensazione di lavorare insieme e questa è, a mio avviso, un’esperienza professionale appagante. Perché alla fine, diciamoci la verità, i monologhi sono sempre un po’ noiosi. Inoltre ho conosciuto Armando Quaranta che in quel film fece un’interpretazione fantastica. Era un personaggio molto lontano da lui, ma fu estremamente credibile e a tratti poetico. Lo invidiai”.
E di “Tuttapposto”?
“Il film si girava in Sicilia e ho avuto il lusso di vivere cinque settimane in albergo. Che quando si lavora è molto utile perché puoi concederti dei momenti di solitudine estrema e considerare il lavoro fatto e quello che si verrà a fare. In un appartamento la solitudine è spezzata dagli elettrodomestici che, volente o nolente, sei costretto a usare. Ricordo le bellissime serate passate assieme a Roberto, Carlo, Simona, Viktoria e i due sceneggiatori Ignazio e Roberto. Spesso si aggiungevano altri e passavamo il tempo a ridere, a ripetere le scene, a fare giochi di società, a bere e a mangiare. Apprezzai moltissimo gli arancini di Catania, non me ne voglia nessun siciliano, la diatriba è una parte narrativa del film. Ci divertimmo tantissimo e portavamo quest’energia sul set, anche troppo alle volte, tanto che il regista Gianni Costantino – che era ed è a dispetto mio un serio professionista – ci redarguì. Ma è un film dal grande valore artistico perché la comicità è usata come scherno per raccontare una vera e poco originale tragedia italiana: il baronato universitario. E ci sono, a mio avviso, due grandissime lezioni di recitazione: Maurizio Marchetti che imperterrito continua a ridere facendo da sottofondo a un mio caloroso sfogo e Maurizio Bologna che regala le fotocopie del suo libro agli studenti. Chi non l’ha visto deve vederlo. E mi darà ragione. Io all’inizio non volevo farlo. Avevo appena preso un ruolo ne “L’Amica Geniale” e mi sentivo un po’ sto cazzo. Per fortuna ci ripensai”.
Come stai vivendo questo difficile periodo storico?
“Durante il lockdown dell’anno scorso sono stato tutto il tempo a Roma, a casa. Da solo. Ma solo solo. In quaranta metri quadri. Vedevo solo il cassiere del supermercato e la farmacista. È stato un momento di cui non mi pento e che mi ricorderò per sempre come la mia purificazione. Ho riscoperto il piacere di prendermi cura di me stesso, ma anche quello dell’abbandono più totale alle ore della giornata. Bellissimo, ma non lo rifarei. Ora non so che dire. Il cinema va avanti, ma ci sono sempre più i video-provini che a mio avviso sono proprio un’altra arte rispetto al provino in presenza. Come dicevo prima, bisogna rinnovarsi continuamente. E questa è un’altra sfida. L’unica cosa di cui mi dispiace è vedere le sale cinematografiche e i teatri chiusi a prescindere, e le chiese aperte in zona rossa. Ci hanno imbastito le orecchie con i pareri scientifici e io non ho mai capito qual è la formula scientifica che renda una chiesa più sicura di un teatro”.
I tuoi prossimi progetti?
“Ho finito di girare la terza stagione de “L’Amica Geniale”, dove interpreto Bruno Soccavo e mi sono molto divertito a lavorare sull’evoluzione del personaggio. Ho girato anche una piccola parte nel nuovo film di Guido Chiesa che si chiama “Dica trentatré” e per me è stato un vero piacere tornare sul set e incontrare la troupe della Colorado dove si lavora sempre con grande armonia. A proposito di Colorado, prossimamente uscirà un film prodotto da loro e distribuito da Netflix, “A classic horror story” con la regia di Roberto de Feo e Paolo Strippoli. Sono state cinque settimane di lavoro intenso dove ho provato a parlare con un accento diverso dal mio, a costruire un personaggio che non avevo mai avuto l’occasione di interpretare. Volevo a tutti i costi farlo e ai provini confessai la mia grande passione per il cinema horror. Mentendo, ovviamente”.