Dietro al successo delle serie tv più apprezzate, ancor prima del regista e del cast, ci sono gli sceneggiatori. Con la loro penna, estremamente delicata e puntuale, cercano di raccontare storie, racconti di vita che tentano in un’ardua impresa, ovvero quella di emozionare facendo vibrare le corde dell’anima di chi poi vedrà, sul piccolo o grande schermo, la storia che è stata scritta. Mario Ruggeri, è senza alcun dubbio, una delle penne di maggior bravura per fiction che hanno ascolti record. Si è laureato in Filosofia all’Università Cattolica dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica applicata e linguaggi della comunicazione. È docente in diversi master del settore cinematografico e televisivo, tra cui l’attuale Master in International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica di Milano. In queste settimane stiamo vedendo la sua ultima fatica, ovvero “Un passo dal cielo 6 – I guardiani” su Rai1; con lui siamo partiti proprio da questo, ripercorrendo la sua carriera fino ai suoi inizi.
Mario, partiamo proprio da “Un passo dal cielo 6 – I guardiani”. Per quali motivi firmare questa nuova stagione?
“Perché è il progetto a cui sono più legato professionalmente. Don Matteo, che seguo da anni, è sicuramente importante per me, ma è un progetto che ho ereditato. Mi è stato “affidato”. Un Passo Dal Cielo è un progetto invece che ho cominciato da zero. Insomma è un figlio che ho visto crescere e che oggi avrebbe 12 anni”.
Quali sono le novità di questa sesta stagione?
“Sicuramente un Passo dal Cielo 6 – I Guardiani rimette al centro della serie la Natura. E’ un tornare alle origini. La natura che viene raccontata in svariati modi. La natura come rifugio dalla modernità; la Natura intesa come ambiente da sfruttare ma allo stesso tempo da proteggere, come il sottotitolo, I Guardiani, fa ben capire. La natura insomma come madre ma anche come matrigna. Come luogo che ci fa paura, ma anche come “casa” in cui alla fine possiamo trovare il senso di noi stessi, la nostra stessa salvezza”.
Montagne, lupi, umanità, emozioni forti: qual è la forza di questa fiction?
“La forza è portare il pubblico in un mondo che sta ad un passo dal cielo. Un mondo che dà serenità. Un mondo in cui voler stare, vivere, evadere, lontano dalle ansie, dai problemi di tutti i giorni. Soprattutto ora in questo periodo di lockdown. Ettore Bernabei ci diceva sempre “fate andare a letto le persone serene”. E noi cerchiamo di farlo. Io e tutto il gruppo di persone che mi aiuta nel progetto”.
In questa fiction ti vediamo nelle vesti di head writer. Ci spieghi quali sono gli oneri e gli onori di questo mestiere?
“L’head writer è quello che sostanzialmente tiene le fila di tutta la scrittura, di tutti gli episodi. Colui che “inventa” le linee orizzontali (sostanzialmente quali storie interesseranno i personaggi principali per tutta la serie) e insieme ad altri autori le linee verticali, i singoli casi di puntata. Non è solo un lavoro di scrittura, ma anche di super visione della serie nella sua totalità. Per questo “entro” anche nelle decisione riguardanti il cast, le regie, la post produzione. Ripeto. Non è solo un lavoro di scrittura. Non mi fermo alla sceneggiatura, ma seguo tutto il processo che parte dalla scrittura del primo soggetto e arriva alla messa in onda. Naturalmente in un sistema complesso, che prevede una vera e propria squadra di persone. Dal produttore, ai producers, agli story editor, registi, ecc ecc. C’è un mondo dietro la serialità. Senza una squadra coesa non si va da nessuna parte”.
Perché hai deciso di fare lo sceneggiatore?
Per non rimanere disoccupato. Vengo da una terra di lavoratori “seri”, direbbe mio padre. Gente che “costruisce”, che fa. Un mondo in cui difficilmente mi sarei integrato. Sarei rimasto disoccupato, e allora mi son dato alla scrittura. Sono emigrato. E ora sono un “pendolare” della fiction. Scendo dal nord, per andare a Roma, a fare lo “scenografo”, come diceva mia nonna”.
Cosa significa per te esserlo?
“Poter raccontare storie. Che non è una cosa banale. Se uno ci pensa, raccontare storie è uno dei tratti fondamentali dell’essere umano. Solo gli uomini raccontano storie. Un’esigenza innata. I miei figli vogliono sentirsi raccontare storie da quando hanno due, tre anni. Raccontare storie in fondo è rappresentare la realtà e cercare di raccontarne la verità. Insomma alla fine, se uno ci pensa bene, raccontare storie ci permette di conoscere l’uomo e di essere liberi”.
Sogno e realtà: raccontare storie è tra i due?
“Direi tutte e due. Io sono tendenzialmente per il “realismo magico”. Un pezzo di sogno, di magia, che entra nella realtà e ce la fa comprendere meglio, ma allo stesso tempo ce la trasfigura, e ce la porta ad una dimensione più alta. Questo è raccontare storie”.
Sei anche lo sceneggiatore di un’amata serie tv che ci fa compagnia da diversi anni, ovvero “Don Matteo”. A cosa si deve il record di ascolti ogni volta?
“Don Matteo e Terence Hill, è un chiaro esempio per me di “realismo magico”. Un mondo reale che ci appartiene, il nostro mondo, un mondo che tutti riconoscono (il mondo della provincia, della piazza) in cui entra un elemento magico, Terence Hill/Don Matteo con i suoi occhi azzurri e la sua aurea di mistero. E’ questo connubio che funziona: da una parte una realtà che riconosciamo (che poche serie raccontano), e dall’altra un personaggio “magico” che ci porta in essa, facendoci vedere che c’è qualcosa al di là, che nella nostra quotidianità ci può essere speranza e la “magia” di un mondo migliore. Secondo me è questa la chiave vincente”.
Terence Hill, il più noto “prete detective” della Rai. Cosa significa averlo protagonista della tua sceneggiatura?
“Io sarò sempre grato per avere avuto il privilegio di avere lavorato per il mio mito. Non è una cosa da poco lavorare con e per il “mito” che uno ha sin da bambino. Mi ricordo ancora la prima volta che lo vidi, alla Lux Vide. Dissi: “Ma allora esiste davvero”. Nella mia ingenuità lo guardavo con gli stessi occhi da bambino con cui vedevo i suoi film, Trinità, Altrimenti ci arrabbiamo, e pensavo che Terence fosse una sorta di essere mitologico, che non fosse di questa terra. Poi negli anni ho scoperto che Terence rimane sempre un “mito”, ma in carne ed ossa. Una persona reale, vera. In tutti i sensi”.
Questo è sicuramente uno dei periodi della storia più complicati. Come l’hai vissuto e come lo stai vivendo?
“Inizialmente ho pensato che questo periodo potesse fare bene alle nostre coscienze. Una pausa forzata, per fermarci e farci riflettere sulle cose belle ed essenziali della vita che prima si davano per scontate. Uscire la sera, andare al cinema, ritrovarsi con gli amici. Le relazioni umane insomma. Capire anche che siamo “piccoli”, e che non siamo padroni del mondo e della natura che ci circonda. Un bagno di umiltà insomma. Adesso però la situazione inizia a pesare. La vita dello sceneggiatore (come quella di tutti) è fatta di incontri, relazioni e questa pandemia le ha praticamente azzerate. Zoom non può sostituire un incontro viso a viso, le relazioni reali. Spero che si ritorni alla normalità al più presto”.
#andràtuttobene?
“Torneremo a vivere, ma forse più consapevoli”.
I tuoi prossimi progetti?
“Sto lavorando su Don Matteo 13 e su due progetti internazionali. Tutte e due molto affascinati. Uno che riguarda il mondo dell’esorcismo, ma trattato in chiave realistica. Come ripetiamo noi autori nella writer’s room: tutto quello che vi hanno raccontato sull’esorcismo sino ad ora sono solo “cazzate” horror. Dietro c’è una verità molto più complessa, che va al di là di persone che rantolano o vomitano. C’è un mondo tutto da raccontare. L’altro progetto è top secret ma anche questo sarebbe la realizzazione di un sogno di ragazzino”.