Ambientato nel 1860, nel Regno delle due Sicilie, all’alba dello sbarco delle truppe garibaldine, in una terra ancora senza legge, quattro bandite, chiamate le Drude, sono alla ricerca della loro personale vendetta. Giustino Fortunato è il marito di Filomena, una giovane donna in dolce attesa che viene rapita dalle Drude. Di questo si racconta ne “Il mio corpo vi seppellirà” il film di Giovanni La Parola, un “western – pulp” al femminile prossimamente sulle piattaforme Apple tv, Google Play, YouTube, Amazon, Chili, Timvision, Rakuten, Infinity. A vestire i panni del barone è Gabriele Gallinari, palermitano di nascita, romano di adozione e cosmopolita per passione, tanto teatro e tanta televisione.
Gabriele, per quali motivi hai detto sì a questo progetto?
“Se ti raccontassi di aver “detto di sì” a questo progetto, non te la racconterei giusta; ho lottato per far parte di questo progetto. Il ruolo era stato pensato per un attore famoso. Mi ero proposto alla Casting come spalla per i provini e in questo modo avevo rimediato un provino per un piccolo ruolo. Ma rivedendo i provini degli altri, il regista Giovanni La Parola, un matto visionario – che Dio lo benedica! – ha voluto incontrarmi per il ruolo del Barone Giustino Fortunato e così ho preso il ruolo. Un po’ come quando a Miss Italia prendono l’amica che l’ha solo accompagnata. E’ stata una conquista e mi sono divertito come un matto”.
Come ti sei preparato per diventare Giustino Fortunato?
“Quello con il Barone Giustino Fortunato è stato un buon incontro. E’ stato come se avesse riattivato la mia fantasia. Un personaggio pieno di umanità, in cui ho trovato tracce familiari; alcune contraddizioni tutte siciliane, il mio dialetto, un certo tipo di ironia, la camminata di un vecchio amico di mio padre, il vezzeggiativo con cui il portinaio della casa di Palermo dove sono nato e cresciuto chiamava sua moglie urlando da un capo all’altro dell’androne del palazzo. C’è tanto della mia infanzia siciliana nel Barone Fortunato”.
Come ci descriveresti il tuo personaggio?
“Un baronastro di campagna, un simpatico mitomane, che non perde occasione di vantarsi delle proprie gesta eroiche, salvo poi darsela a gambe quando si mette male, un bel cialtrone insomma. Per certi versi è un personaggio negativo, che sfugge alle proprie responsabilità, non protegge dal pericolo chi dice di amare, estremamente vanitoso. Ma ho immediatamente provato simpatia per lui, per la sua vitalità. Un personaggio scritto bene – e credo che questo lo sia – non è mai soltanto una cosa, proprio come gli esseri umani con tutte le loro contraddizioni”.
Il film è ambientato nell’Ottocento, come definiresti quel periodo storico?
“Si svolge nel periodo appena precedente all’Unità d’Italia, ma visto attraverso gli occhi di chi si opponeva all’Unità. Nei villaggi del Sud, dove l’arrivo dell’Esercito Sabaudo era un’invasione da respingere, l’ennesima legge imposta con la violenza da usurpatori, il popolo si ribellava come meglio poteva, affidando la resistenza alle bande di briganti, emarginati dalla società, armati fino ai denti, unica difesa contro la crudeltà dei soldati Sabaudi. Lavorando a questo film ho scoperto che alcune vicende incensate dalla Storia in realtà mascherano le violenze sanguinarie dei soldati invasori. Un’epoca in cui i contadini venivano giustiziati se ignoravano il nome del futuro Re d’Italia”.
Per quali motivi hai scelto questo mestiere?
“Sono nato e cresciuto a Palermo, in una famiglia poco attenta al cinema ed al teatro. Sin da quando avevo 8-9 anni, a chi mi chiedeva cosa volessi fare da grande, rispondevo che avrei fatto l’attore. Non so da cosa scaturisse quella convinzione, ma in effetti già da qualche anno avevo iniziato ad intrattenere i miei genitori ed i loro amici con degli spettacoli improvvisati, di cui annunciavo l’inizio qualche minuto prima di irrompere in salotto, travestito da personaggi fantasiosi con vestiti rubati nei loro armadi, farfugliando qualcosa e godendomi i loro applausi. Poi nulla più, se non qualche recita scolastica. Esisteva un’azienda di famiglia ed era scontato che ci avrei lavorato anch’io. Così mi sono ritrovato a Milano laureato in Economia, confuso e molto insoddisfatto. Dopo un anno di limbo, un’improvvisa malattia di mio padre mi ha convinto che avevo il diritto di provare a fare quello che desideravo. Sono stato ammesso alla scuola del Teatro Stabile di Genova e ho ricominciato da capo. Oggi ti dico che ho scelto di fare l’attore per vivere altre vite diverse dalla mia”.
Cosa significa essere attore oggi?
“Vorrei poterti dire qualcosa di bello, ma il più delle volte essere attore oggi significa essere disoccupati o accettare lavori senza compenso o accettare lavori per cui diventa difficile persino ricordare per quale motivo hai scelto questo mestiere. Proprio per questo motivo, mi sento molto fortunato ad aver preso parte a questo progetto e ringrazio chi si è fidato di me, dandomi la possibilità di farlo. Questo è un film coraggioso, decisamente fuori dal coro: è il film storico in costume, sì. Ma anche il western, il pulp, l’azione”.
Quali fini ha l’attore nei confronti della vita?
“Come attore mi piacerebbe riuscire a far muovere, a cambiare il mio spettatore. Insinuare un dubbio, suggerire un punto di vista differente, fare da specchio, mostrargli che non è il solo a sentirsi in quel modo, raccontargli una storia”.
Tanta televisione e tanto teatro, ma tu dove ti senti più a casa? Perché?
“Ho una formazione teatrale e forse niente mi ha fatto sentire altrettanto vivo, attento, parte di qualcosa. E’ comunque sempre spaventoso per me, un’emozione che ti prosciuga la saliva e ti manda il cuore in tilt. La televisione è stata senz’altro una grande palestra. Devi essere pronto, veloce, ricettivo, dev’essere buona la prima, la seconda al massimo. Fare cinema è il mio sogno. Credo di essere più portato per il gesto ‘piccolo’, per così dire, quello che la macchina da presa viene a scovare, per un lavoro di miniatura. Qui trovo una maggiore libertà, possibilità. Al cinema mi sento a casa. Detto questo oggi al primo posto metto il LAVORO. Ovunque esso sia. C’è bisogno di lavorare per diventare bravi”.
Quest’ultimo anno è stato sicuramente uno dei più complessi e ancora non è finito. Tu come l’hai vissuto e come lo stai vivendo?
“Male. Certo, ci sono situazioni in cui come fai, sbagli e questa una di quelle. Davvero non vorrei essere nei panni di chi deve prendere delle decisioni in questo momento. Proprio nel momento in cui le persone vengono limitate nella loro libertà. Il cinema, il teatro, l’arte restituiscono loro quella libertà attraverso l’immaginazione, nel quotidiano, riempendo la loro vita, creando appagamento e positività, benessere e gioia di vivere. Quanti Italiani durante il lockdown hanno trovato conforto nella visione di film e serie televisive? In una società evoluta l’arte è nutrimento per l’essere umano, primario e vitale. Concretamente, perché non riempire le sale cinematografiche al 30 per cento, con ingressi contingentati, spettatori distanziati, che indossano la mascherina, respirano aria filtrata e guardano un film in silenzio? Perché un cinema non è un luogo sicuro? Ingressi ridotti al 30 per cento non coprono i costi? Forse questo settore meriterebbe di essere sostenuto economicamente al pari di altre categorie”.
I tuoi prossimi progetti?
“Sto lavorando ad un corto, di cui vorrei fare la regia, ispirato ad un breve racconto di Julio Cortázar. Due personaggi, un’ambientazione fantastica, ma un dialogo con pochissimo testo che necessita quindi di un lavoro di scrittura. Per me è la prima volta. Sino ad ora ho sempre fatto l’interprete, ho eseguito e nell’esecuzione ho messo del mio, ma non avevo mai sentito l’urgenza di raccontare qualcosa di mio. Questo però significa aspettare che le cose arrivino e oggi invece voglio una maggiore autonomia. Interprete sì, ma anche un po’ autore, come d’altronde la maggior parte dei miei colleghi sta già facendo”.