Nei suoi romanzi Maurizio De Giovanni spesso lo chiama «l’uomo senza il cappello». Stiamo parlando del commissario Ricciardi che è arrivato nelle nostre case il 5 gennaio su Rai1. A capo scoperto, occhi verdi malinconici, Luigi Alfredo Ricciardi si muove nelle atmosfere rarefatte del crimine e dei sentimenti della Napoli degli anni ’30 intessendo una rete di relazioni tra vivi e morti in cerca della verità. A firmare questo ennesimo successo della rete ammiraglia è Alessandro D’Alatri. Romano doc, classe 1955, è senza ombra di dubbio uno dei migliori registi di cinema e tv. Ha iniziato la sua carriera diversi anni fa, facendo l’attore in un film di Vittorio De Sica, per poi passare dietro la macchina da presa come regista di spot pubblicitari e debuttare al cinema nel 1991 con “Americano Rosso” con Fabrizio Bentivoglio con cui vince il David di Donatello e il Ciak d’Oro come miglior regista esordiente. Un altro David e un Nastro d’Argento li ottiene per “Senza pelle” con Kim Rossi Stuart nel 1995. Insomma, la sua è una carriera di tutto rispetto, ma ancora molte sfide lo attendono. Della sua ultima fatica su Rai1, dei suoi inizi e delle sue sfide accettate e vinte, ne abbiamo parlato proprio con lui.
Alessandro, partiamo dal presente. Ancora una volta hai vinto. Qual è il successo, secondo te de “Il Commissario Ricciardi”? Perché piace così tanto?
“La ricetta del successo non c’è mai, magari ci fosse. L’amore, l’attenzione, la cura maniacale e la passione per quello che si fa sono gli ingredienti necessari che hanno sempre accompagnato me e il mio lavoro, sin dai miei inizi. Soltanto in questi ultimi anni mi sono avvicinato alla serialità e fortunatamente è sempre andata bene. Nel caso de “Il Commissario Ricciardi”, posso dirti che è stata un’avventura fantastica ma allo stesso tempo molto faticosa: il budget era buono ma l’ambizione era fortissima. Più di 350 ruoli all’interno del progetto e sei mesi molto intensi di casting. I costumi sono stati curati nei dettagli, è stato un lavoro meticoloso nella ricerca dei tessuti e delle forme di ogni abito, per non parlare poi del carico d’umanità portato in scena. Abbiamo ricostruito 300 ambienti in una Napoli contaminata dalla modernità in un set che in parte aveva luogo nella capitale partenopea e in parte a Taranto. La preparazione è stata di quasi tre anni: la gestione degli attori era in mano mia con un lavoro enorme per mantenere un sano equilibrio lavorativo, rispettando la tonalità recitativa di ognuno. Gli stessi sceneggiatori – ottimi professionisti – hanno lavorato in maniera estenuante prestando attenzione ad ogni minimo dettaglio. Probabilmente il pubblico non era abituato a questa cura, eppure – visti gli ascolti – sembra aver percepito che dietro alla superficie visiva, c’era un lavoro non indifferente da parte di tutti”.
La storia che ci racconti è tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni, uno degli autori più letti. Qual è la sua forza?
“Conosco molto bene i suoi romanzi e la potente energia di scrittura. Ricciardi non è un semplice commissario che fa indagini, bensì molto di più. Unisce il sacro ed il profano, racconta di una società molto lontana dalla nostra. E’ un grande affresco popolare in cui la finzione si unisce alla realtà cercando di rispondere alla domanda: quanta realtà c’è nella menzogna? Il romanzo in sé è finzione, distante dalla realtà con il tentativo di assassinare quest’ultima generando così la conseguente libertà”.
Il protagonista indiscusso è Luigi Alfredo Ricciardi, un commissario con le sue luci e le sue ombre. Come lo definiresti?
“Dopo aver trascorso tanti anni con lui per portarlo in scena, è un mio caro amico. Dovevo conoscerlo e farlo conoscere a chi ancora non ne aveva avuto il piacere. Mi sono quasi fatto accompagnare da lui in quest’avventura in cui la finzione e il reale sembravano combaciare davvero. Ricciardi è un uomo intelligente e sensibile, qualità con i loro pro e i loro contro in un’Italia, quella di quegli anni, onesta, sincera, generosa, infantile e anche credulona”.
Hai portato sul piccolo schermo i colori di Napoli degli anni ’30. E’ stata una sfida difficile fare un salto nel passato?
“Non direi, mi sembrava di essere a casa: mia madre è di quegli anni lì. Ho ascoltato i suoi racconti attentamente, oltre che visionato un discreto numero di immagini fotografiche. Quello è stato un periodo storico in cui c’era fiducia verso il prossimo, c’erano ideali ben saldi. La famiglia e la religione erano porti sicuri in cui stare e rifugiarsi. Da lì in poi è scoppiata la seconda guerra mondiale portando morte e distruzione, c’è stata poi una ricostruzione con il conseguente boom economico fino ad arrivare al terrorismo e alla crisi morale ed economica di oggi. Raccontiamo un fascismo considerandolo un po’ un effetto collaterale della società, non è un elemento centrale. Purtroppo, poi, lo sarebbe diventato in futuro, ma fortunatamente noi abbiamo preso in considerazione quella prima parte di quegli anni”.
Prima di passare alla macchina da presa, eri un attore. Perché avevi deciso di intraprendere questo tipo di carriera?
“E’ stato un caso. Ero un bambino molto timido. Mia madre decise così di iscrivermi ad un corso di recitazione per vincere questo mio continuo status di estrema riservatezza e così fu. Mi trovai benissimo dove mi trovavo. Un giorno una casting mi vide e mi propose un ruolo nello spettacolo teatrale di Visconti “Il giardino dei ciliegi” al Valle. Da quel momento non mi sono più fermato fino ad essere diretto da De Sica”.
Come e perché, poi, sei finito dietro alla telecamera?
L’attore è colui che deve sempre aspettare, ore ed ore. C’era un grande trambusto sul set: tutti si davano da fare, mentre io ero costretto ad aspettare il mio turno. Sono stato notato poi da una costumista che mi ha assunto come assistente scene costumi: mi divertivo moltissimo a cercare le stoffe. Questo l’ho fatto per diverso tempo. Venni poi notato da un regista che mi volle come suo assistente e da quel momento ho capito che quella sarebbe stata la mia strada”.
Cosa significa essere un regista, per te?
“E’ un mestiere straordinario. Vuol dire essere responsabile di un progetto condividendolo con altri. Vuol dire fare squadra facendo le scelte giuste. Significa avere una visione completa di quello che accade, sviluppando un rapporto di fiducia con se stessi e con gli altri. Può però essere un vero e proprio inferno, in quanto ti alzi e ti addormenti sempre con quel pensiero”.
Il grande debutto al cinema avviene con “Americano Rosso”, un ritratto dell’Italia del fascismo trionfante. Com’è nata l’idea di fare questo film?
“In realtà quando sono stato contattato dal produttore stavo per partire per l’Asia. Non appena ho letto la sceneggiatura, ho subito cercato una cabina telefonica per dare il mio consenso e così è stato”.
Diversi premi anche per “Senza pelle”, film che hai diretto e in cui affronti le problematiche di Saverio, uno dei protagonisti. In che modo riesci a toccare così bene questioni così delicate?
“La propria anima deve esser a disposizione del progetto, indossando anche le anime dei vari personaggi. Chiunque lavori senza passione non sarà mai completo. La passione per quello che si fa deve essere sentita sotto pelle, ma sempre con umiltà”.
Questo è sicuramente uno dei periodi storici più complessi della storia. Tu come l’hai vissuto e come lo stai vivendo?
“Ho profondo rispetto per chi non c’è più e per i suoi cari. Nonostante questo, però, sono positivo perché questa immane tragedia avrà una fine. Per due mesi sono stato in casa senza mai uscire, recuperando film, fiction e libri che non ero riuscito a vedere e a leggere fino a quel momento. Questa pandemia ci ha permesso di avere un dialogo con noi stessi che prima non avevamo, siamo cioè riusciti, almeno in parte, a recuperare il respiro dalla corsa frenetica a cui eravamo sottoposti inconsapevolmente. Il Covid-19 ha provocato un grande dolore, rabbia e tristezza su più fronti ma ha valorizzato l’importanza di uno sguardo che di fatto è l’unico modo di guardarci, nonostante la mascherina ci copra buona parte del viso. Gli abbracci torneranno, più calorosi di prima”.
I tuoi prossimi progetti?
“Stiamo girando una serie tv con Alessandro Gassmann dal titolo “Un professore”. Si tratta di un docente di filosofia che tutti avremmo voluto avere”.