In queste settimane abbiamo visto in prima serata su Rai1 “Gli orologi del diavolo“. Stasera è in programma l’ultima puntata di una fiction che ha avuto un ottimo riscontro di pubblico e che vede come protagonista indiscusso Giuseppe Fiorello. Ispirata a fatti realmente accaduti, ci è stata raccontata la storia di Marco Merani che è un mago dei motori marini, ha una moglie e una figlia che ama e un lavoro che adora. Quando uno dei suoi migliori clienti viene assassinato, scopre che i gommoni che preparava per lui erano utilizzati per il trasporto della droga. Due uomini si presentano nel suo cantiere per chiedere di continuare con quel lavoro, ma Marco, invece, accetta di aiutare la polizia. Ma la sua vita cambierà radicalmente da quel momento. A narrarci questa storia è Salvatore Basile, una firma che non ha bisogno di presentazioni, in quanto di storie belle ed emozionanti ce ne ha raccontate tante. Ora cerchiamo di conoscerlo un po’ meglio.
In queste settimane stiamo vedendo “Gli orologi del diavolo”,per quali motivi hai sentito il bisogno di raccontare la storia vera di Gianfranco Franciosi?
“La storia di Gianfranco Franciosi ha dell’incredibile, contiene già tutti gli elementi per far pensare che la realtà possa superare qualunque fantasia: un uomo “normale”, bravissimo meccanico di imbarcazioni, viene coinvolto, proprio grazie alla sua bravura professionale, in un traffico di stupefacenti internazionale, fino a diventare un infiltrato… senza autorizzazione ufficiale, per poi essere costretto a cambiare nome e vita per evitare la vendetta dei criminali. Tutto ciò basterebbe a intrigare qualunque sceneggiatore e a lanciarsi nella scrittura della sua storia. Ma la vera molla, quella che ha fatto scattare il “bisogno” di raccontare, è stata proprio conoscere Gianfranco e capire che sta ancora pagando lo scotto delle sue imprese al servizio della giustizia. E’ stato proprio a questo punto che, tutti insieme, abbiamo capito che avevamo di fronte l’occasione per accendere i fari su una questione ancora aperta e, magari, dare una mano a risolvere, una volta per tutte, il destino di un uomo che ha fatto il proprio dovere e rischia, ancora oggi, di pagarne le ingiuste conseguenze”.
A prestare il volto a Marco Merani nella fiction è Giuseppe Fiorello: perché scegliere proprio lui?
“Beppe Fiorello non è stato scelto, ma ha scelto. E’ stato lui ad andare a scovare la storia di Franciosi, a conoscerlo e parlargli, a conquistare la sua fiducia. In parole povere, da Beppe è partita l’intera operazione, quindi il protagonista delle serie non poteva essere che lui. E’ la quinta volta che mi trovo a lavorare con Beppe (Ultimo, L’uomo sbagliato, Sarà sempre tuo padre, I fantasmi di Portopalo) e, ogni volta, mi sorprende per il rigore professionale, l’attenzione che dedica ai minimi particolari, la dedizione nei confronti delle storie che andiamo a raccontare. Oltre a Beppe, poi, c’è stato l’apporto editoriale della Rai, preziosissimo, e la lucidità del regista Alessandro Angelini, che hanno reso possibile portare in TV questa storia così appassionante”.
Quella che ci racconti è la storia di un uomo che si trova risucchiato in un vortice da cui sembra non esserci via d’uscita, ma una riscatto per farcela lo troverà anche lui?
“Nel caso di Franciosi, il riscatto c’è stato solo in parte (come vedremo nel finale della serie) e ci auguriamo tutti che anche questa serie possa accelerarlo fino a renderlo completo. Vederlo sul set mentre assisteva alle riprese, scorgere quel lampo di emozione e commozione nei suoi occhi nel vedersi “rappresentato”, mi hanno fatto sentire parte della “ricompensa” che tutti abbiamo sperato di offrirgli dopo tanta sofferenza”.
Da eccellente raccontastorie, ritieni che un riscatto esista per tutti?
“Ci credo fermamente, che un riscatto esista per tutti, altrimenti non potrei fare il raccontastorie, termine che amo moltissimo. Perseguo l’idea, forse un po’ romantica, che ogni giorno possa essere quello del riscatto per chiunque. Ma soprattutto amo raccontarlo, ne abbiamo bisogno per tirare avanti nei momenti difficili e non abbatterci. Sarà anche un concetto trito e ritrito, ma continuo a pensare che il vero riscatto per ciascuno di noi, sia il tentativo di raggiungere un obiettivo, qualunque sia il risultato finale. Aprire gli occhi al mattino e avere un percorso da compiere, qualunque esso sia, è una richiesta e una ricerca di riscatto. Se ci pensiamo bene, la scansione della vita, giornata dopo giornata, azione dopo azione, non è altro che un continuo viaggio verso un riscatto, la speranza di essere riconosciuti per ciò che valiamo, ma soprattutto di scoprire chi siamo davvero”.
Sono anni e anni che accompagni il pubblico Rai e non solo con le storie che ci racconti ma com’è nata questa passione?
“Forse ho sempre sentito l’esigenza di raccontare: la mia infanzia è disseminata di tentativi di piccoli racconti, trame di film e similari. Eppure la passione si è trasformata in esigenza tardivamente, dopo i 30 anni. Avevo un lavoro sicuro, presso un sindacato agricolo di cui curavo l’ufficio stampa. Però, a un certo punto, ho iniziato a percepire che la mia vita era incompleta, una sorta di insoddisfazione che aumentava e non aveva un nome. Per un periodo mi sono rifugiato nella lettura in maniera bulimica. Poi è arrivato il richiamo. Ho frequentato alcuni corsi di scrittura creativa per cercare di assimilare le regole del racconto. Poi è arrivato un corso di sceneggiatura tenuto da Stefano Reali. Ecco, quel corso mi ha fatto capire che non avrei voluto fare altro nella vita. Ho dato le dimissioni dal lavoro, quasi da un giorno all’altro: non ero sposato, non avevo altre responsabilità oltre a quelle nei miei confronti e… mi sono lanciato senza rete nel lavoro di sceneggiatore con l’aiuto dello stesso Reali che è stato il mio primo mentore. Dopo quasi due anni di apprendistato nella “bottega” di Stefano, e svariati lavori saltuari svolti per sopravvivere economicamente, sono arrivati i primi contratti e i primi risultati. Mi ritengo molto fortunato”.
Cosa significa essere sceneggiatore?
“Al di là della passione, dell’esigenza, della voglia di raccontare, essere sceneggiatori è assumersi la responsabilità di “occupare” al meglio il tempo delle persone che hanno bisogno di trascorrere qualche ora di intrattenimento, sia che si mettano in macchina o in cammino per andare al cinema, sia che si accomodino su un divano davanti a un televisore o a un portatile. Vuol dire cercare di capire i loro gusti, ma anche di anticiparli o, addirittura, di svelarli. E’ una missione, se vogliamo. E non può prescindere dal rispetto nei confronti del pubblico, dallo sforzo di raccontare per regalare nuove esperienze, anche per imparare qualcosa di nuovo e, magari, migliorare. Tutti noi, quando apriamo un libro o accendiamo la TV, oppure quando entriamo in un cinema o in un teatro, coltiviamo la sottile speranza di uscire da quell’esperienza con un bagaglio acquisito di emozioni e/o nuove consapevolezze. Ci approcciamo, tutti, al racconto con la speranza di uscirne in qualche modo “accresciuti”, diversi da prima. E’ un aspetto che non bisogna mai perdere di vista. Anche quando si scrive puro intrattenimento, anche umoristico. Oltre a ciò, e a tutte le altre cose risapute che riguardano il mestiere, essere sceneggiatore vuol dire studiare, ferocemente, incessantemente, allo scopo di migliorarsi ogni giorno, anche (e soprattutto, per quanto mi riguarda) dopo anni di carriera”.
Ed esserlo nel 2020 che valore ha?
“Nel 2020 la responsabilità è ancora maggiore, considerando la situazione che stiamo vivendo. Per chi, come me, scrive prettamente per la Rai, poter offrire qualche serata di intrattenimento che allontani la mente, per un paio d’ore, dalle preoccupazioni e dai problemi reali con i quali siamo tutti costretti a confrontarci a causa della pandemia, è un’esperienza ancora più appagante rispetto al solito. E anche, come dicevo, una grande responsabilità”.
Attraverso cosa ti appassioni ad una storia piuttosto che ad un’altra a tal punto da spingerti ad andarla a raccontare?
“Attraverso il tema e il valore in gioco. Non è tanto la trama di una storia ad appassionarmi, quanto il significato recondito che contiene. Dietro a “che cosa racconto?”, si nasconde sempre la domanda: “di che cosa sto parlando davvero?”. La lotta interiore tra la luce e l’ombra che sono presenti in ciascuno di noi, il conflitto interiore che porta a scegliere tra il bene personale e quello comune, le rinascite in qualunque ambito, il superamento dei propri limiti, il riscatto sociale, le potenzialità nascoste da scoprire, i mondi degli “ultimi” e degli “invisibili”… sono i temi che più mi “accendono” e mi spingono a raccontare. Poi c’è quello strano, affascinante fenomeno della storia che arriva all’improvviso, come una suggestione. Una piccola traccia, una piccola idea che inizia a martellare e a chiedere spazio. All’inizio non si capisce per quale motivo sia lì a “bussare” e, solo dopo un po’, si rivela col suo vero significato, con l’urgenza che nascondeva e non riuscivi ancora a interpretare. Come se le storie andassero a cercare proprio chi è pronto a raccontarle perché ha una ferita che reclama una guarigione e, magari, non lo sa ancora”.
Quale significato ha la parola Emozione per te?
“Hillman parla di un momento che definisce “sospensione estetica”. E’ quando ti trovi al cospetto di un quadro, di un’opera d’arte, di un paesaggio improvviso, di una musica che esplode dalla radio in un determinato momento, di un gesto, una frase, un sorriso, un profumo che genera un ricordo… e tutto ti sembra perfetto, tutto ha un senso definito anche se non riesci ad afferrarlo e a dargli un nome. Al di là di tutto ciò, credo che l’emozione sia, semplicemente, essere vivi. Aprire gli occhi al mattino e affrontare la giornata, avere uno scopo, qualcosa o qualcuno che ti attende. E’ uno stato mentale che dipende dall’attenzione che dedichi al mondo intorno a te. E’ capacità di osservare e interpretare, dare un significato alle cose, o anche soltanto porre una domanda che attende risposte urgenti. A mio avviso, le emozioni non devono solo piombarti addosso, ma devi andarle a stanare dove meno te lo aspetti”.
Quello che stiamo vivendo non è uno dei periodi più semplici purtroppo. Cosa come stai vivendo questa epidemia globale?
“La sto vivendo con la preoccupazione che accomuna tutti noi, ma soprattutto con l’attenzione che la situazione merita, le rinunce ai contatti stretti con le persone che amo, le mascherine, le distanze di sicurezza e gli igienizzanti. La protezione che devo alle mie figlie, che devono fare i conti con l’entusiasmo della loro età e la voglia di socializzare che, purtroppo, devono limitare fino a quando la situazione non si sarà definitivamente risolta. Rispetto al lavoro, il lockdown ha avuto un duplice effetto: le prime settimane mi hanno destabilizzato completamente, tanto tempo a disposizione, azzeramento degli spostamenti per le riunioni di sceneggiature, giornate intere da dedicare alla scrittura… eppure tutto ciò mi ha provocato un blocco creativo. Mi sono sentito spaesato, la concentrazione necessaria è andata a farsi benedire e ho galleggiato a lungo in una sorta di torpore che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Poi, per fortuna, mi sono ripreso e ho ricominciare a “macinare” lavoro, portando a termine il mio terzo romanzo e alcune sceneggiature a cui tenevo molto. Ora che siamo di fronte a una nuova stretta, mi sento più pronto: uno dei tanti lati positivi di questo lavoro è che la scrittura può e, anzi, deve continuare in qualunque frangente. Se manca il lavoro, lo puoi preparare per il futuro. E sai che il tuo lavoro porterà lavoro agli addetti allo spettacolo che stanno vivendo momenti terribili. Quindi scrivi anche e soprattutto per loro. Oltre al fatto che ciò che stiamo vivendo, le paure, le rinunce, la crisi economica e di lavoro, costituiscono anche un notevole territorio di osservazione e meditazione”.
#andràtuttobene, secondo te?
“La pandemia, prima o poi, sarà sconfitta, magari quando arriverà un vaccino sicuro che possa essere distribuito a tutti. Andrà tutto bene se riusciremo non solo a risorgere dalle macerie economiche e umane, ma se riusciremo a far tesoro della situazione trasformandola in occasione di rinascita ed equità sociale, di cura dell’ambiente, rivalutazione della cultura e annullamento delle discriminazioni di qualunque genere. Speriamo”.
Tra i tuoi “allievi” spiccano due altri gradi sceneggiatori, quali Francesco Arlanch ed Andrea Valagussa. Cosa li differenzia da tutti gli altri?
“Francesco e Andrea sono nel mio cuore. Oltre al talento naturale posseggono l’amore per la scrittura, la passione vera, l’etica professionale e il rispetto per il pubblico. Definirli miei allievi è un’esagerazione: ho solo avuto la fortuna di accompagnarli nel tragitto iniziale del lavoro, forse sono riuscito a regalare loro qualche “trucco del mestieraccio” dettato dall’esperienza. Non so se sono riuscito a dare altro, ma sicuramente ho preso molto da loro, dal loro entusiasmo, dalla loro voglia di fare. E vederli mietere successi mi riempie di orgoglio. Un altro lato bello del lavoro è proprio questo: affiancare di volta in volta colleghi diversi, imparare da loro. E ciò accade anche quando si tratta di giovani talenti che puoi aiutare a crescere più in fretta, e che in cambio ti danno tantissimo. Bisogna aprirsi agli altri, confrontarsi, arricchirsi reciprocamente. In questo modo, anche negli ultimi tempi, sono entrato in contatto con talenti di nuova generazione come Tommaso Matano o Federico Gnesini, giovanissimi ma già preparati e agguerriti, oppure come Silvia Tufano, geniale e talentuosa, capace di spaziare dal disegno al cartone animato, dal romanzo al racconto breve, sempre con una visione originale e spiazzante. Sono pronto a scommettere che ne sentiremo parlare molto e a lungo. Per uno sceneggiatore ultrasessantenne, tutto ciò rappresenta una carica vitale importantissima, oltre a un ulteriore modo per stare al passo coi tempi. Il futuro dell’audiovisivo è in costante evoluzione, porterà molto lontano. Ma occorre studiarlo e, se possibile, anticiparne gli sviluppi”.
I tuoi prossimi progetti?
“Sono tanti, per fortuna. Forse qualcuno rimarrà nel cassetto, altri andranno in porto, come sempre. Nel frattempo, sto terminando un film distopico per la Rai, una sceneggiatura per il cinema e un corto d’animazione al quale tengo tantissimo. Oltre a ciò, ci sono un paio di serie per la Rai in attesa di attivazione. Se son rose…”.