Roma, 1976. Valerio ha dieci anni e una fervida immaginazione. La sua vita di bambino viene sconvolta quando, insieme alla madre, assiste all’attentato ai danni di suo padre Alfonso da parte di un commando di terroristi. Da quel momento, la paura e il senso di vulnerabilità segnano drammaticamente i sentimenti di tutta la famiglia. Ma è proprio in quei giorni difficili che Valerio conosce Christian, un ragazzino poco più grande di lui. Solitario, ribelle e sfrontato, sembra arrivato dal nulla. Quell’incontro, in un’estate carica di scoperte, cambierà per sempre le loro vite. Dopo la presentazione in concorso alla 77esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è uscito al cinema “Padrenostro”, di Claudio Noce che si basa sull’attentato del 14 dicembre del 1976 al vicequestore Alfonso Noce, padre del regista, per mano dell’organizzazione terroristica Nuclei Armati Proletari, in cui persero la vita il poliziotto Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichittella. Il film vede un immenso Pierfrancesco Favino – premiato a Venezia con la Coppa Volpi come Miglior Attore – guidare un cast composto da Barbara Ronchi, Mattia Garaci, Francesco Gheghi, Antonio Gerardi e Francesco Colella. «La sua figura forte, magnetica, eroica, assurge ad archetipo di un’intera generazione di uomini per i quali le emozioni erano percepite solo come debolezza e obbligate a essere camuffate da silenzi – ha raccontato il regista -. Nel dicembre del 1976, quando mio Padre subì l’attentato, io avevo un anno e mezzo: abbastanza per comprendere la paura, troppo pochi per capire che quell’affanno avrebbe abitato dentro di me per molto tempo. Non sono mai riuscito a dirglielo. Scrivere questa lettera a mio Padre tracciando i contorni di una generazione di bambini “invisibili” avvolti dal fumo delle sigarette degli adulti non è stato facile; provare a farlo mutando le parole da private in universali è stata una grande sfida come cineasta e come uomo. In questi giorni ho riletto la rivendicazione dei NAP rilasciata dopo l’attentato. Solo adesso capisco veramente come la mia infanzia sia stata percorsa a lungo da quella frase ‘Alfonso Noce sappia che la sua condanna a morte è stata soltanto rinviata. I proletari hanno tanta pazienza e lunga memoria’. Per anni ho sentito la paura arrivare nel cuore del giorno e della notte ascoltando gli adulti ripetere quella minaccia come un mantra. Durante tutte le fasi della lavorazione del film ho affrontato una faticosa battaglia interiore, lavorando su due piani distinti: uno fortemente evocativo in forte relazione con la porzione autobiografica della storia, l’altro più libero, emancipato dai miei ricordi e più conforme alla favola dell’amicizia. I due piani tuttavia sono comparati sullo stesso terreno di studio e di indagine. La forma del film nasce proprio dalla dicotomia di questi differenti criteri».