“Milano chiama” è un brano carico di energia, permeato da un mix di poesia, rabbia e ironia, nello stile che ha reso celebre Eugenio Finardi, il primo vero cantautore indie del nostro Paese. E’ un inno alla coalizione, al diritto alla dignità e al calore umano, oltre che un implicito invito a cambiare qualcosa prima che sia troppo tardi. Energia, rabbia e poesia sono i tratti salienti della carriera di Eugenio Finardi, da più di quarant’anni guru della canzone d’autore indipendente italiana e quest’ultimo brano è un canto di battaglia e di speranza.
Eugenio, come e quando è nata l’idea di scrivere il brano “Milano chiama”?
“E’ un brano nato tutto d’impulso. Ultimamente mi diletto a costruire chitarre. La prima settimana di marzo, prima del lockdown, ne avevo realizzata una per il mio chitarrista Giuvazza (Giovanni Maggiore). La stavamo provando a casa mia quando è uscita una ritmica piuttosto tagliente. Il mio chitarrista è di Torino, il manager Andrea Pintaldi sta invece a Pachino ed ecco che abbiamo cominciato a giocare tra di noi: Milano chiama – Torino risponde, Milano chiama – Pachino risponde. “Milano chiama” è un brano nato prima che il virus ci portasse a questo lunghissimo silenzio così assoluto che troppo fa pensare. Questa primavera silenziosa ha finito con l’ammorbidire molto i toni delle canzoni, ma sta arrivando il momento di reagire”.
“Milano chiama” è un implicito invito a cambiare qualcosa prima che sia troppo tardi. Che cosa, per te?
“Il ritmo troppo frenetico in cui viviamo. Il virus che sta portando alla rovina di fatto siamo noi stessi, è l’uomo; la natura si è ribellata e ci ha fatto un antipatico scherzo. Nella nostra idea di sviluppo, ora c’è una frenata e una battuta d’arresto”.
Canti “disinformazione, speculazione no noi non ne abbiamo bisogno, di immaginazione ne avremo sempre bisogno”. La cattiva informazione e l’immaginazione quanto contano nel nostro Paese?
“La disinformazione c’è sempre stata e continuerà ad esserci nel mondo; è un’arma potentissima, più di un fucile. E’ più facile comprendere la cattiva informazione che non quella corretta. L’immaginazione è il nostro tutto; senza di essa non ci sarebbero i sogni e senza questi ultimi non ci sarebbe vita.
Canti di dignità, libertà e di sogni in questa tua ultima fatica, ma cosa rappresentano per te?
“Ho il sogno di vivere in una comunità che sappia essere tale nel rispetto e nella dignità dell’altro. Ognuno di noi è alla ricerca della felicità; il viaggio che noi affrontiamo di certo non può essere fatto da soli perché stando soli fa male anche l’aria”.
E nella musica?
“Ho suonato con musicisti eccezionali, permettendo che ognuno di loro trovasse la propria via nella mia musica ed ecco che il mio sogno si è realizzato. Ho sempre cercato di dare spazio al fondersi insieme, piuttosto che l’emergere singolarmente”.
Cosa ha significato per te essere definito una colonna portante della nostra musica italiana?
“Sono sempre stato difficilmente incasellabile, sono stato un outsider ma posso dire che, insieme a Bennato, Fossati, Guccini e De Gregori, abbiamo cercato di far sviluppare una coscienza collettiva. Il cinema ha commentato la società ma i sogni privati, i dolori e gli amori li abbiamo cantati noi”.
Hai vissuto la musica per decenni, dagli anni ’70 a oggi e hai dunque visto modi di aggregarsi diversissimi. Come ti poni, dinnanzi a quello che verrà?
“Da musicista sono molto preoccupato per la categoria, siamo una di quelle meno difese e più colpite lavorativamente ed economicamente; penso ai musicisti ma soprattutto ai tecnici, a chi lavora intorno al lavoro dei musicisti: siamo tutti precari per definizione e per natura. Penso anche al teatro, al cinema, ai concerti”.
Sono tante le città che prendi in esame in “Milano Chiama”; oltre al capoluogo regionale della Lombardia, citi anche Bergamo, uno dei luoghi più drammaticamente colpiti dall’emergenza. Quali sono le immagini che rimarranno impresse nella tua memoria?
“Sotto alla CNN, ho letto: “Bergamo centro mondiale della pandemia”. Sicuramente questa mia cara città è stata fortemente colpita ma credo di certo che non sia stata per fortuna la più colpita del pianeta. E’ stata una scritta forte, che faceva male, anche quasi paradossale. Il mondo si è fermato per oltre due mesi, senza fare distinzione ma è necessario prestare attenzione alle parole che vengono pronunciate e scritte perché possono far male”.
“Dolce Italia” è una tua canzone che risale al 1987, una vera e propria dedica al nostro Paese. Il brano parla di un confronto tra l’autenticità dei valori italiani e la finzione di altre nazioni, ma qual è la forza dell’Italia, secondo te?
“L’immaginazione. Vuol dire creazione, fantasia, attenzione al dettaglio e anche professionalità. Siamo molto più e anche molto meno di quello che crediamo. Dinnanzi alle difficoltà, abbiamo sempre saputo reinventarci, lo faremo anche questa volta”.
“Di calore umano ne abbiamo sempre bisogno, anche se da lontano basta un piccolo segno”, finita questa quarantena, quale valore avrà l’abbraccio, secondo te?
“Sono sempre stato un “abbracciatore” seriale e mi manca tanto l’abbraccio, me ne sono accorto quando sono finalmente riuscito a riabbracciare mio figlio. Ora sarà molto più prezioso di prima”.