Albert, giovane professore di storia, viene incaricato di tenere un corso di recupero pomeridiano per sei studenti sospesi per motivi disciplinari. Il docente, intravedendo nella rabbia dei ragazzi una possibilità di comunicazione, riesce a far breccia nel loro disagio e conquista la fiducia della maggior parte della classe. Abbandona la solita didattica e propone loro di partecipare a un concorso, un bando europeo per le scuole superiori che ha per tema “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”. L’Olocausto di cui gli studenti decideranno di occuparsi non riguarderà il passato, ma i tragici eventi che stanno avvenendo proprio nel paese da cui la maggior parte dei rifugiati dello “Zoo” scappa… e quello che doveva essere solo un corso pomeridiano si trasforma presto in un’intensa esperienza di vita che cambierà per sempre il destino del professore e degli studenti. “La classe” di Vincenzo Manna per la regia di Giuseppe Marini (una produzione di
Accademia Perduta/Romagna Teatri – Società per Attori – Goldenart Production), con Claudio Casadio, Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Haroun Fall, Cecilia D’Amico, Giulia Paoletti e con Andrea Paolotti – al quale abbiamo fatto qualche domanda – è testo molto attuale, sulla scuola, sull’utopia, sull’insegnamento, sull’integrazione; è uno spettacolo intimo, spietato, che ci riporta sui banchi di scuola con un crudo realismo dai tratti poetici.

Andrea, come mai hai deciso di continuare a portare in giro questo spettacolo?

“E’ un progetto che ogni anno è cresciuto e ogni anno è stato rilanciato. Tutto è iniziato nel 2017 in un piccolo teatro romano; sono arrivati poi Accademia Perduta e Romagna Teatri che hanno deciso di proporlo al mercato nazionale. Lo scorso anno è andato tutto benissimo ma quest’anno sta andando ancora meglio e ne siamo tutto molto felici”.

“La classe” è il titolo ma di quale classe stiamo parlando?
“Si tratta di una classe di sei giovani ragazzi difficili e un po’ al limite di una periferia europea non identificata. Hanno storie private molto complesse. L’autore ha così portato in scena un incontro – scontro tra realtà personali per niente rosee. La città d’ispirazione è Calais, in Francia, luogo in cui molti migranti aspettavano di passare La Manica; è stata poi creata una baraccopoli per poi essere sgombrata”.

Tu sei Albert, come lo definiresti?
“E’ uno straniero a se stesso; è un immigrato di terza generazione, nato e cresciuto nel paese che ha ospitato i suoi nonni. E’ come se si trovasse in un limbo nel quale non è più appartenente alla sua cultura d’origine e nemmeno a quella ospitante. E’ un uomo che compie delle azioni senza avere una piena adesione a queste”.

In che modo il tuo professore capisce il disagio dei suoi studenti? Di quale disagio stiamo parlando?
“Credo che la parola disagio abbia già una sua connotazione propria; può essere declinato in numerose variazioni. Può essere un disagio dovuto a ragioni economiche, a ragioni culturali, a ragioni di genere, può essere un disagio che si manifesta in specifici comportamenti, in rabbia, in indifferenza, in apatia. In questo caso parliamo di un mancato equilibrio, di un filo teso tra il luogo da cui si proviene e l’aspirazione di ciascuno. Albert cercherà di stabilire un po’ di equilibrio”.

Porti in scena uno spettacolo molto intenso che unisce il passato al nostro presente, sei d’accordo?
“In un incontro pubblico che abbiamo fatto, un critico ha detto che questo non è teatro contemporaneo bensì istantaneo. Quello che noi raccontiamo potrebbe davvero esser accaduto a qualcuno nelle nostre periferie”.

Cosa vorresti arrivasse al grande pubblico di questo spettacolo?
“Quello che mi auguro che arrivi sempre quando si va a teatro, ovvero un’emozione”.