Cosa succede quando, senza avvertire, una notizia rompe il legame quasi simbiotico che aveva tenuto due fratelli uniti sin dai loro primi giorni su questa terra? È quello che racconta Enrico Vanzina in “Mio fratello Carlo”, il libro che ripercorre la storia del loro rapporto, fino alla scoperta della malattia che ha colpito Carlo portando alla sua scomparsa. I ricordi, l’ironia, gli incontri fatti, la comune passione per il cinema, il dolore dell’addio e un libro in cui stipare i ricordi di una vita, vissuta appieno, l’uno affianco all’altro senza mai separarsi. “Mio fratello Carlo” è un libro che ripropone non soltanto le gesta professionali ma sopratutto umane del regista che hanno caratterizzato anni del nostro cinema. Tra commedia e dramma, tra amore e morte, vince la vita, sempre.
Vanzina, perché ha deciso di scrivere proprio questo libro?
“E’ un libro che non avrei ma voluto scrivere. Pupi Avati – che è stato uno dei primi a leggerlo – mi ha detto: «Questo è il libro che tu non avresti mai voluto scrivere ma che tutti dovrebbero leggere». Il mio intento era proprio quello di rivolgermi a tutti coloro che si sono trovati o si stanno trovando nella stessa situazione in cui mi sono trovato io, ovvero in una situazione in cui non si può fare più niente, per dare loro forza e speranza. “Mio fratello Carlo” doveva essere un libro sulla morte e invece è sulla vita”.
Quindi l’amore può vincere contro la morte, secondo lei?
“Vince la vita. Nel momento del distacco, la quotidianità e le cose inutili vengono meno per lasciare spazio all’essenza che invece rimarrà per sempre. La morte mi ha portato via Carlo ma non la sua essenza che è sempre vicino a me.
Racconti che in un pomeriggio, nel vostro ufficio di sempre, tuo fratello ad un certo punto ha percepito un suo sguardo e ha detto: “Non ti preoccupare, ho avuto una vita meravigliosa”, cosa c’è stato e cosa c’è ancora di meraviglioso?
“C’è lui e rimane tutto quello che abbiamo fatto insieme, l’aver avuto accanto una persona straordinaria, leggera, intelligente, colta, che si metteva sempre un po’ in disparte, che ha attraversato la vita con il cinema. Ha sempre sostenuto che fosse meglio il cinema della vita perché quest’ultima non ha quasi mai il lieto fine mentre il cinema sì. Quando mi ritrovo a scrivere, mi capita spesso di guardare la sua poltrona vuota e di chiedergli come avrebbe scritto lui quella scena e percepisco la risposta. Abbiamo davvero avuto una vita meravigliosa perché siamo “capitati” in una famiglia di persone gentili, cortesi, che ci ha insegnato quasi tutto e che ci ha permesso di fare il più bel lavoro del mondo. Abbiamo raccontato le tante vite degli altri e, grazie a queste, abbiamo viaggiato tantissimo nella magia dell’arte, attraversando una vita piena, con i nostri successi e anche i nostri insuccessi, ma mai noiosa”.
Quando, con suo fratello. avete deciso di iniziare questo mestiere?
“Proveniamo da una famiglia che faceva cinema molto prima di noi e forse anche meglio di noi; nostro padre non voleva assolutamente che intraprendessimo questo mestiere. Carlo ha iniziato prima di me. Inizialmente volevo solo fare lo scrittore, poi ho cominciato a fare l’aiuto regista, il regista e lo sceneggiatore. Ora occupa la mia vita a tempo pieno e ne sono molto orgoglioso”.
Quanto le manca suo fratello e cosa le manca più di tutto di lui?
“Mi manca moltissimo. Quando è morto mi sono sentito spaccato a metà perché abbiamo vissuto tutti i giorni della nostra vita insieme. Mi manca lo sguardo: non avevamo bisogno di parlarci, ci capivamo al volo. Ho sempre cercato di proteggerlo ma ho poi scoperto che era lui a proteggere me”.
Chi era Carlo Vanzina e cosa rimarrà di lui?
“E’ sempre stato una persona per bene e, in un Paese che cade a pezzi, essere un signore non è cosa di poco conto. Rimane tutto il cinema che ha realizzato insieme a me. Rimane quella lunga narrazione popolare che abbiamo realizzato che ha raccontato questo Paese, a volte bene e altre meno. Ha dedicato la sua vita all’osservazione di questa nazione, degli Italiani e del loro riuscire sempre a cavarsela. I suoi film rimarranno; è successo a mio padre, a Risi, a Monicelli e succederà anche per Carlo”.
E lei invece, dopo questo libro, come si sente?
“Quando l’ho scritto è stato liberatorio. Per scriverlo sono come stato guidato da qualcuno, forse da Carlo stesso. Ora ne sto parlando tanto in giro per l’Italia e non avevo messo in conto che la ferita della perdita è ancora viva e fa male”.
Non ha mai avuto il pensiero di lasciare la fabbrica dei sogni che è il cinema, ora che non c’è più Carlo?
“Assolutamente no, anzi ho continuato. Credo che mia madre, mio padre e sopratutto Carlo fossero dell’idea che io continuassi. Veniamo da molto lontano e non possiamo abbandonare quello che abbiamo costruito con così tanti sacrifici”.
Secondo lei, cosa potrebbe pensare suo fratello del libro, da lassù?
“L’ho scritto in totale buona fede ed è di fatto una storia d’amore. Siccome qualche film romantico l’abbiamo fatto, anche se non tantissimi, penso che Carlo consideri questo libro come un film d’amore che forse non abbiamo mai girato”.
Il cinema come lo definirebbe?
“Ci ho pensato tante volte e credo che la definizione data da Alfred Hitchcock sia la più bella mai stata data, ovvero che il cinema sia la vita con le parti noiose tagliate. Questo vale per le commedie, il film drammatici, il cinema d’autore, per i film d’azione, per i thriller. La noia fa parte del quotidiano, il cinema recupera momenti significativi del quotidiano per trasformarli in magia”.