Sono due amici per la pelle, Antonio ed Agostino, che si ritrovano dopo anni, ma sono persone incredibilmente sole; sono anime perse alla ricerca di un’ancora di salvezza, di un valore  – quello delle proprie origini – che faticano a riconoscere. “Drive Me Home” di Simone Catania – dal 26 settembre al cinema – porta sul grande schermo una tematica molto delicata che sembra oramai diventata la protagonista della società di questi ultimi anni, ovvero l’inevitabile desiderio di appartenere a una cultura diversa dalla propria con la scelta di vivere lontano dalla propria patria che va a contrastare la sete di nostalgia di un ritorno che sembra non arrivare mai. Di “Drive Me Home” e non solo abbiamo parlato con il regista, Marco D’Amore e Vinicio Marchioni, anch’egli protagonista della pellicola.

Catania, da dove arriva l’idea di girare questo film?
“Diversi anni fa, ho vissuto all’estero per molto tempo e volevo raccontare quel sentimento del sentirsi “straniero” che “invadeva” me e molti giovani che vivono lontano dal proprio Paese. Desideravo raccontare quello stato d’animo in cui, una volta lontani, si sente dentro un richiamo alle radici”.

Chi sono Antonio ed Agostino?
“Sono due persone che hanno perso il proprio punto di riferimento e che ne sono disperatamente alla ricerca. Sono uomini fragili che hanno cancellato il proprio passato per andare altrove alla ricerca di qualcosa. Con il tempo però capiranno che di fatto la vita fuori non è così come se la immaginavano ed ecco che il richiamo del ritorno comincerà a farsi sentire”.

D’Amore e Marchioni, “Drive Me Home” è un film sul ritorno e sul significato della parola casa. Per i vostri personaggi che valore hanno?
“D’Amore: Esprimono il conflitto che Agostino – il mio personaggio – vive con sé stesso nell’accettazione di sé non vivendo in armonia con gli altri. E’ un continuo andirivieni nella memoria, a ferite che non si sono mai rimarginate e che fanno ancora male. La casa è il luogo da cui scappare e in cui non tornare, ma è anche un posto apparentemente estraneo che accoglie e dà la possibilità di trovare un’identità”.

“Marchioni: Inizialmente, è qualcosa da cui Antonio va via via per cercare una sua dimensione in Europa ma non risulterà così. Il suo viaggio consiste nel ritrovarla. Il suo ritornare è un riappropriarsi di qualcosa che credeva di aver perso. Il mio personaggio è un po’ come quei giovani che decidono di andarsene, ma che poi decidono di tornare”.

La parola “casa” per voi cosa significa?
“D’Amore: Mi è sono stati trasmessi un profondo rispetto, una riconoscenza e la conoscenza per il luogo in cui sono nato e cresciuto. “Casa” è anche il ritrovarla un po’ ovunque e dare la possibilità di entrarvi a coloro che ne sentono la necessità”.

“Marchioni: La casa è mia mia moglie, i miei figli, uno spazio teatrale quando assisto ad uno spettacolo, gli hotel che mi ospitano ogni volta che sono sul set, un’amicizia, una storia d’amore, un Paese nuovo che ti accoglie; posso dire che assume sfumature diverse a seconda del periodo di vita che sto attraversando”.

In questo film, le emozioni, i sentimenti, le debolezze e le fragilità coesistono nell’uomo. E’ così?
“D’Amore: Certo, viene smontato il mito secondo cui gli uomini devono ad ogni costo sfidare le emozioni, dimostrandosi diversi per essere apprezzati. Agostino deciderà di non nascondersi più, di non nascondere le proprie ferite, di non far più finta che Antonio non esista perché di fatto è lui la sua ferita. Quell’abbraccio che attende da 15 anni arriverà”.

“Marchioni: In questo film raccontiamo l’affetto tra due amici che affrontano sé stessi per poi riuscire a riabbracciarsi, dicendosi ciò che mai si erano detti. “Drive me home” è una pellicola in cui finalmente due uomini hanno coraggio di affrontare sé stessi, si emozionano, piangono e sorridono, insieme. Molto spesso quello che pensiamo sia una debolezza si trasforma in un punto di forza”.

D’amore, sei diventato noto al grande pubblico per la serie tv “Gomorra”, ma com’è cambiata la tua vita dopo quel ruolo?
“La mia vita, privata e non, ha avuto una svolta; è cambiato lo sguardo che gli altri avevano su di me, esattamente come il mio vestire i panni di un personaggio come questo mi ha “costretto” a fare i conti con i miei limiti e con le mie incapacità. Grazie a “Gomorra” sono riuscito ad esprimermi a 360 gradi”.

Sarai dietro la macchina da presa per “L’immortale”. Qual è la forza di Ciro Di Marzio?
“Sta nella capacità di fare uscire un personaggio conflittuale e controverso. Pur portando in scena di vita di un uomo che ha fatto una determinata scelta di vita, osservandolo bene fa intravedere un bagliore di speranza”.

Marchioni, sei stato protagonista di film come “20 sigarette” di Aureliano Amadei – uno dei superstiti della strage di Nassiriya del 2003 – qual è la forza del nostro cinema?
“Chi fa il cinema in Italia. Sono quei registi, sceneggiatori, attori e produttori che ancora decidono di scommettere in questo assurdo mestiere che non è regolato da nessun sistema nel nostro Paese ma che è affidato al caso, cercando di far conoscere pochissimi film anche all’estero”.

Sei stato tra i protagonisti di “Tutta colpa di Freud” di Paolo Genovese, perché la commedia italiana continua a vincere?
“E’ la cosa per cui siamo stati conosciuti per primi, oltre i nostri confini. Siamo i figli della commedia dell’arte, di quell’improvvisazione dell’arte di arrangiarsi, non solo in ambito artistico ma anche nella quotidianità della vita”.

Dove ti vedremo prossimamente?
“Il 30 ottobre mi ritroverete al cinema con “L’uomo del labirinto” di Donato Carrisi con Dustin Hoffman e Toni Servillo e ne sono felicissimo”.