“Zio Vanja” è uno dei drammi più famosi di Anton Pavlovič Čechov. Un gioco di personaggi annoiati e disgustati come rappresentanza di un’umanità che prende coscienza dei fallimenti e della propria immobilità esistenziale. Questo e molto altro verrà portato in scena a Padova nello spettacolo teatrale, diretto da Álex Rigola, che vede tra i protagonisti Antonietta Bello. Attrice friulana di grande talento, con lei abbiamo cercato di raccontare l’ascesa di una frizzante carriera, costellata da successi che l’hanno portata e la stanno portando in giro per l’Italia, pur mantenendo sempre quella delicata dolcezza che l’ha sempre fatta distinguere dagli altri.
Antonietta, sei in scena a Padova con “Vanja”, cosa ti ha spinto a far parte di questo progetto?
“Un regista teatrale fra i più importanti d’Europa con un curriculum pazzesco. Un cast di attori, conosciuti durante il provino, davvero interessante – siamo tutti stati provinati -. Un testo, questo di Cechov appunto, fra i più belli e i più difficili. Ma forse il motivo che sotto sotto non mi ha fatto dubitare sulla mia risposta, è stato che quando cominciammo a parlare di Zio Vania la mia vita era appena cambiata radicalmente, e dentro di me sapevo, sentivo, che Elena era il personaggio giusto per me in quel momento. E lo è ancora”.
Ci racconti un po’ del tuo personaggio?
“In questa messa in scena ci rivolgiamo gli uni con gli altri usando i nostri nomi propri, perciò è come se mi chiedessi di parlarti di Antonietta. Questo è un testo che affronta la presa di coscienza di fallimenti o immobilità esistenziali. Ogni personaggio affronta questo nodo e cosi avviene anche per me e il mio che nello specifico si sente appiattito in uno schema femminile limitato e ha una relazione con il marito, il professore che non la soddisfa. Magari ha ragione Vanja quando dice che ha rinunciato all’Eros, alla giovinezza, e quindi alla vita? Tra tutti, forse, è il personaggio di cui si sa meno, infatti spesso non è molto ben voluto. Si sa solo quel che si vede: che è molto bella, seducente, e ha una grazia particolare”.
Cosa si avvicina di più e cosa invece si allontana dal romanzo di Čechov?
“Il testo è assolutamente quello di Cechov, senza aggiunte. Ciò che cambia è che ci sono i quattro personaggi principali e il resto è tagliato, ma non omesso bensì raccontato. Forse è interessante capire cosa ci avvicina, ovvero la riflessione che corre sotto la regia di Alex Rigola ed è quella specie di empatia che noi cerchiamo ogni sera in scena. Il punto non è pensare di immedesimarsi con i personaggi, il punto è comprendere le vite altrui, anche diverse, per riscoprire le nostre. Le differenze – che ci sono sempre, perché ognuno di noi si percepisce come un’entità separata da tutto il resto della realtà che lo circonda – sono l’occasione per sperimentare un’intimità rara oggi, e quindi forse occasione di riflessione su noi stessi”.
Quella che tu e i tuoi colleghi portate in scena è un’umanità che sbadiglia, da chi e da cosa?
“No, non sbadiglia, per niente. È esattamente l’opposto. Vive cocentemente le proprie prese di coscienza e frustrazioni. Inizialmente, forse, pensa di poter avere il controllo sulla propria vita e soprattutto i propri stati, accettando fatalmente come un destino inevitabile ciò che accade. Insomma senza tentare di cambiare e pensando che da questo equilibrio quieto, doloroso e frustrante non ci saranno conseguenze troppo ingombranti. Ma alla fine..”.
Ritieni che questo si ripeta anche negli anni che stiamo vivendo?
“In un certo senso si. Tanti sono i temi che oggi sono caldi, compreso quello importantissimo dell’ecologia. Credo anche che questo testo sia così potente oggi perché questa sorta di appiattimento e assoggettamento a un destino inevitabile, questo aspettare che fatalmente qualcosa accada e porti la risoluzione definitiva alla tua vita, è un enorme misunderstanding odierno. Ognuno di noi può trovare se stesso, la serenità e la soddisfazione, ma solo agendo con coraggio, e vivendo nella vivace complessità dei dubbi e del rischio. Se non si è pronti ad abbandonare la semplice, dicotomica, realtà degli assoluti, magari dolorosi ma rassicuranti (tipo credere di essere nati per soffrire) se non si accetta questa sfida, che poi è vivere, la pena è diventare Elena, o zio Vanja, o Astrov, o Sonja”.
“Può essere bello solo ciò che è grave”, affermava Čechov. Tu sei d’accordo?
“Certo, va preso nel senso di ‘avere peso’, e quindi è bello tutto ciò che è importante per noi, che amiamo. Un po’ come dire ‘non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace’. Aggiungo che io lo prenderei anche nell’altro senso: ovvero essere soggetti a forza di gravità e quindi se amate, amate queste persone, questi corpi, qui e ora”.
Cosa rappresenta per te il teatro?
“Difficile riassumere in poche righe temi e riflessioni tanto importanti per me, ma posso provare a renderti l’idea fornendoti delle suggestioni: dedizione, amore, studio, leggerezza, arte, creazione, desiderio, divertimento, filosofia, ricerca, identità, grazia, laicità, bellezza, mestiere, lavoro, soldi , salvezza, comunità, politica, entropia, comprensione e potrei andare avanti”.
Com’è nata la tua passione per questo mestiere?
“Per caso. Molto semplicemente mi divertivo e mi facevo amici nuovi e trovavo ragazzi carini. Ero alle superiori. Evidentemente questa leggerezza ha funzionato e qualche tempo dopo mi ha portato a entrare alla Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, scoprendo che molte mie riflessioni erano riconducibili al teatro”.
Genova, e attualmente anche Roma, sono due tappe molto importanti per la storia d’amore tra te e il palcoscenico. Ci racconti?
“Genova è la mamma, letteralmente impersonata dalla direttrice Annalaura Messeri e da Massimo Mesciulam, a loro devo tanto. Se sono l’attrice che sono, e non parlo solo di tecnica ma anche di carattere, indole e identità, lo devo a loro. Gli anni della scuola sono stati durissimi per certi versi, e per fortuna. Sono legata a loro da un amore viscerale: loro sono i miei Maestri ma come da tutti i genitori, ci si stacca. Ed ecco che arriviamo a Roma, e al Teatro Nazionale di Roma: la mia casa. Amo profondamente questa città e questo teatro, dentro il quale sono maturata ancora tantissimo e che ha dato fiducia al mio estro vivace e un po’ fuori dagli schemi. Ora lavoro molto fuori, rispetto un tempo, ma Roma e il suo teatro sono i posti in cui torno appena posso, per rigenerarmi”.
Sei nata a Gemona del Friuli, ma hai sempre vissuto in provincia di Udine, di quali valori è veicolo questa terra e quale in particolare per te?
“Del Friuli mi piace che è una terra di confine, ricca di contraddizioni e contrasti ed è ancora una frontiera calda per certi aspetti. Convivono in me la follia dell’est, l’errare slavo, quello delle migrazioni (mi viene in mente Miloš Crnjanski, con il suo libro), la dedizione quasi cocciuta al lavoro della mia Carnia, le aspre montagne e il gradevole mare di Grado. Ciò che mi ha lasciato la mia terra e le mie origini è tutto questo frammentato mosaico: irregolare, dolce, e stridente. Solo all’apparenza, incoerente e sconnesso, e non è bello cosi?”.
Sei giovane, ma oggi chi è Antonietta Bello?
“Sono una donna, maturata rispetto a prima, rispetto a quando ci siamo conosciute. E oggi posso dirti che sono molto più cosciente di quanto io sia fragile, forte e complessa. O meglio: mi permetto molto di più di non essere perfetta, di essere anche triste, anche insoddisfatta, e quindi mi permetto di essere felice e soddisfatta quando lo sono. Mi permetto di dirlo a me stessa e a chi mi circonda. Forse maturare significa questo, permettersi di essere ciò che si è, semplicemente, e quindi permetterlo agli altri. Direi che la Antonietta di oggi è un buon punto di partenza..”.
I tuoi prossimi progetti?
“Tantissimi! Intanto spero che ‘Zio Vanja’ continui la sua corsa anche in giro e vi terrò informati di tutto. A giugno torno a lavorare con la regista Giulia Randazzo, a Perugia, con la quale già ho condiviso un progetto che mi portò fortuna, poi ho in serbo altre varie cartucce con ormai il mio amico Roberto Scarpetti, i miei soliti progetti al Teatro Nazionale di Roma, tra cui il mio ruolo di tutor al Master per attori insieme a Sergio Lo Gatto e tante altre cose ancora”.