Racconti di vite, tra il tragico e il comico, il brutale e il dolce, il grottesco e il violento: sono i “Ragazzi di vita” senza futuro delle borgate romane che vivono di espedienti rasentando molto spesso il crimine ma incarnando anche quella vitalità capace in qualche modo di preservarli da una negatività assoluta. Quella che viene portata in scena è Roma, come la leggeva Pier Paolo Pasolini negli anni Cinquanta nel romanzo che nel 1955 diede scandalo per le sue storie di povertà e disperazione, in un brulichio di voci e corpi. Diciotto gli attori che compongono il vasto repertorio di personaggi. La regia è affidata a un attento e puntuale Massimo Popolizio che  sottolinea la vitalità irrefrenabile dei ragazzi conducendo lo spettatore “dentro” le giornate di questi giovani.

A fare da filo conduttore di tutte le storie raccontate nel romanzo, è la figura del narratore incarnata da Lino Guanciale –  alter ego di Pasolini stesso – animato da un febbrile tentativo di ricostruire dei pezzi di storia. Ancora una volta Guanciale riesce a convincere critica e pubblico con la sua intensa interpretazione. Una performance che invoglia le nuove generazioni a frequentare il teatro. Ne abbiamo parlato proprio con lui.

«E’ una storia narrata da un idiota, piena di urlo e furore che non significa nulla», questo è “Macbeth” di William Shakespeare. Trovi ci possa essere una coincidenza tra il drammaturgo inglese e Pasolini? Ci sono assonanze con il tuo personaggio raccontato in questa storia?
E’ un’interessante coincidenza a pensarci bene. L’esercizio che Pasolini fa nello scrivere “Ragazzi di vita” è un vero e proprio esercizio teatrale: l’io narrante del romanzo – che è Pasolini stesso in qualche modo – cerca di confondersi. Fa un disperato tentativo di integrazione di sé nel tessuto culturale, morale ed emotivo della realtà umana delle borgate romane degli anni del secondo dopoguerra, tentando così di sciogliersi dentro una realtà molto distante da lui. L’io narrante è un uomo dall’italiano scolpito da un’istruzione di alto livello che fonde la sua cultura con il romanesco che ascolta, appreso dalle voci dei ragazzi così tanto vitali. Pasolini fonde se stesso in una diversità che tanto lo attrae, attuando un vero e proprio esercizio utopico; la diversità di cui parla è la stessa anche nel “Pianto della scavatrice” che si trova all’interno delle “Ceneri di Gramsci”.

Sei in scena con il primo romanzo pubblicato da Pasolini e vesti i panni del narratore, colui che tenta costantemente di ricostruire pezzi di storia. Com’è il narratore portato da te in scena?
“Si ispira proprio a questo tentativo di fusione di se stessi in una realtà tanto distante da sé che Pasolini fa nel romanzo. E’ come se il mio narratore non fosse proprio Pasolini ma un suo successore, colui che tenta di fare quello che facevano molti intellettuali e uomini colti in quell’epoca. Penso per esempio ad Elio Petri in “Nei giorni contati” che ambienta un’intera sequenza del film in una borgata che è a tutti gli effetti una favela. E’ un intellettuale che si spreca in uno studio e in una ricerca di vita premorale di perfetta innocenza che però di fatto moriva sotto i colpi dell’arrembaggio dello sviluppo economico della società dei consumi e che pulsava negli strati più popolari della Roma dell’epoca. Era infatti evidente quanto la povertà di quel mondo stesse assottigliando la propria presenza sotto una logica morale nuova che stava arrivando”.

Sei diretto da Massimo Popolizio. Come ti sei preparato per il tuo ruolo e cosa ha significato avere lui come regista?
“Ho cercato di seguire attentamente le sue indicazioni, trattando il mio personaggio come un ladro che cerca di assaporare la vita e la sua essenza per provarne a darne ultima testimonianza. Il narratore è consapevole che quel mondo sta morendo e questo è certificato dal personaggio centrale all’interno delle tante voci di ragazzi, ovvero Riccetto: a dieci anni rischia la vita per salvare una rondinella, da oramai adulto non ci pensa neanche di salvare un bambino che affoga in un corso d’acqua. Preferisce salvare la sua persona piuttosto che quella altrui. Mi è piaciuto molto lavorare con Massimo; lo conosco da  tempo e mi onora della sua stima e della sua amicizia da tanto. Quando mi ha fatto questa proposta teatrale ho detto di sì di slancio perché sapevo quanto gli appartenesse il primo Pasolini e quanto lui avesse studiato per cercare di rendere appieno la vitalità della Roma di cui Pasolini si innamora. Il risultato è  uno spettacolo godibile, divertente e fresco che avvicina le giovani generazioni a un autore che altrimenti sarebbe dimenticato”. 

“Ragazzi di vita” è un romanzo che negli anni ’50 diede scandalo, perché secondo te?
“Diede scandalo in parte per la visione critica delle conseguenze culturali del boom economico e in parte per la scabrosità delle narrazioni di mercimonio erotico presenti nel romanzo, oltre che per la violenza per alcuni passaggi linguistici di alcuni episodi narrati. “Ragazzi di vita” era anche l’espressione con la quale si definivano i giovani che vendevano se stessi al miglior offerente per le strade di Roma. A guardarla oggi la scandalosa brutalità di questi ragazzi narrati da Pasolini fa un po’ sorridere visto a ciò che siamo abituati, ma in quegli anni lo scrittore aveva provocato un gesto di grande rottura: non guardare quel mondo dall’alto in basso e giudicarlo, ma inserirsi dentro di esso, cercando di scandagliarlo alla pari per comprendere intimamente la realtà di quei giovani”. 

Cosa c’è di moderno e attuale in quest’opera?
“C’è molta modernità in quest’opera: quella società dei consumi che porta tanto sviluppo materiale quanto poco sviluppo morale è la società in cui viviamo ancora oggi. C’è stata un’accelerazione che ha fatto piazza pulita di quanto c’era prima instillando nuovi bisogni per lo più anche falsi come una società dei consumi che ben si rispetti. Il mondo in cui viviamo è figlio di una trasformazione che ha dato molto in termini di benessere più o meno diffuso ma ha tolto tanto in termini di ricchezza emotiva e valoriale.

“Ragazzi di vita” è un titolo in cui emergono la miseria e le dure condizioni di vita di questi giovani costretti a crescere prima del tempo, ma senza perdere la loro vitalità. Oggi ritieni che i giovani siano ancora così o che abbiano la possibilità di scegliere?
“I giovani di oggi hanno solo apparentemente molta più possibilità di scelta rispetto ai ragazzi di allora. Per uscire dalla miseria molti giovani avevano poche strade praticabili allora, tra cui per esempio il crimine o il fatto di piegarsi a fare mestieri che non appagavano. Quelli di oggi hanno forse più possibilità di istruzione con meno ristrettezze ma non è detto che ci sia una prospettiva futura tanto più rosea; hanno infatti la coscienza che la loro vita sarà più difficile rispetto ai loro predecessori, esattamente come le loro aspettative non saranno all’altezza di chi li ha preceduti. Il futuro non sarà all’insegna di un’ulteriore crescita, ma forse ci sarà un declino. Se l’esistenza dei ragazzi degli anni in cui è ambientato il romanzo era all’insegna dell’ottimismo, per i giovani di oggi è all’insegna di una coscienza piegata in negativo. La vita è solo apparentemente più facile per i giovani di oggi: la prospettiva per il futuro ha molte più incognite e molte più ombre di quanto invece non accadesse decenni fa”.